Parrocchia Comunità Missionaria pagine 380-381

QUALCHE PAROLA Dl CONCLUSIONE

Dicevamo al principio di quest’opera che non era nostra intenzione dare un complesso di ricette bell’e pronte. Ed ecco che, giunti alla fine dl questo lavoro, siamo ugualmente presi dal timore d’essere capiti male, tanto è facile il sospettarlo. Vediamo benissimo certi confratelli, con la matita in mano, segnare certi punti, ripromettendosi di tenerli presenti: li sentiamo sottolineare qualche particolare concreto, che è stato portato solo a titolo d’esempio. E crediamo che vi sia lì un pericolo.

Non già che abbiamo la pretesa di credere che tutte le nostre idee siano buone. Non è il timore di vederne respinte alcune — e magari la maggioranza — quello che ci spinge a scrivere questa conclusione. Abbiamo detto abbastanza che non volevamo presentare alle parrocchie popolari un «modello» preso a prestito dalla nostra. Vorremmo tuttavia insistere su quest’idea: che cioè l’apostolato «missionario» è un insieme, un tutto, e che si tratta d’uno spirito da assumere e da diffondere, non già di procedimenti fittizi e frammentari da usare.

Abbiate dunque nella vostra chiesa una liturgia vivente con splendide cerimonie: non per questo influirete sulla massa, se non cercherete di costituire nella vostra parrocchia tutta una rete d’apostolato.

Al contrario, potete lanciare con tutti i vostri sforzi un movimento di conquista, il migliore fra tutti, e dirigerne sufficientemente il cammino: se la vostra chiesa non è accogliente, se le vostre cerimonie sono incomprensibili, se le persone conquistate dai vostri militanti non vi trovano un’iniziazione ai grandi misteri, i vostri sforzi d’apostolato corrono il rischio di fare un buco nell’acqua. Che cosa saranno le vostre funzioni meglio preparate, più ricche d’addobbi e di canti, se i vostri astanti non sono anzitutto riscaldati da una predicazione avvincente, diretta, che crei un’atmosfera di pietà e d’unione? Potete mettere insieme tutti questi sforzi liturgici ed apostolici, e tuttavia attendere invano il risultato. Basterà per questo che voi, parroco o vicecurato, siate freddo col vostro popolo, lontano da lui: basterà che i vostri operai non si sentano a loro agio con voi. Basterà forse che, a torto od a ragione, nella vostra parrocchia vi si appioppi la nomea di «uomo danaroso» o di prete «borghese».

E se vi lascerete accaparrare completamente dalle vostre opere di bambini o di giovani, dall’amministrazione delle vostre riunioni, quando troverete il tempo di fare un po’ d’apostolato diretto? Se, d’altra parte abbandonerete i ragazzi, per occuparvi unicamente degli adulti, rischierete d’avere, in capo a pochi anni, la chiesa vuota.

Ripetiamo dunque che si tratta di un tutto, d’un complesso, e che per di più si tratta di vedere — con occhi ben spalancati e sempre nuovi — i problemi che si presentano, d’essere capaci di risolverli con mezzi diversi da quelli che ci vengono dall’abitudine o dall’usanza. È chiaro che, in questo senso, alcuni dei nostri capitoli non fanno altro che esporre il problema, senza neppur pensare di risolverlo.

Infine, se il nostro pensiero è stato ben compreso, ci sarà resa questa giustizia: per quanto possiamo forse sembrare rivoluzionari, in realtà non facciamo altro che risalire alle sorgenti stesse dell’apostolato più tradizionale e più primitivo: il messaggio integrale di Cristo portato da preti che sono integralmente preti e che respingono ogni mezzo il quale non sia pienamente sacerdotale.

Dice Péguy: «La rivoluzione è un appello d’una tradizione meno perfetta ad una tradizione più perfetta: è un ritorno alle sorgenti».

Possano queste pagine essere un ritorno alla sorgente dell’eterno spirito apostolico!

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 373-379

2 – UNA PARROCCHIA APERTA Al NEOFITI

A quanto dicevate, la perseveranza dei nuovi convertiti offre un grave problema, non è vero?

Sì. Quando si considera il numero degli adulti che, nelle nostre parrocchie operaie, si preparano al battesimo o alla Prima Comunione e non perseverano, si rimane angosciati. Ammettiamo che, per una buona parte, i motivi della conversione sono dubbi: concessione ad una fidanzata in vista del matrimonio, o convenienza. Un certo numero, però, vi si prepara lealmente, ed alcuni di quelli che da principio venivano senza convinzione si sono lasciati conquistare dall’insegnamento e dall’esposizione della nostra religione. E del resto sarebbe un disperare del Vangelo il fatto di credere che esso non abbia in sè una forza d’attrazione. Ora, malgrado tutto ciò, un buon numero dei nostri ottimi neofiti, molto commossi nel giorno del battesimo, molto ferventi in quello della Prima Comunione, non restano fedeli alle loro pratiche cristiane. Conservano un buon ricordo del prete che li ha preparati, un’impressione che tutto quell’insieme è bello ed appaga, ma la loro vita non ne è trasformata. Donde proviene questa deficienza? Quali sono coloro che invece perseverano? Quelli che sono sorretti da una comunità. Perseverano i giovani che vengono condotti dai loro compagni e che in un’opera, o in un gruppo, trovano l’ambiente che li sostiene: bastano un’amicizia, una vicinanza, una famiglia. Ma rari, rarissimi, nei nostri ambienti popolari, sono coloro che si reggono da soli.

In primo luogo, dunque, affinchè i nostri neofiti sboccino e rimangano fedeli, bisogna circondarli e farli circondare. E questo è possibile sul piano parrocchiale. Se la nostra parrocchia sarà una vera comunità, se soprattutto si appoggerà su piccole comunità di quartiere, di vicinato, comunità molto umane e molto reali, il convertito non si sentirà isolato. Si taglierà fuori dal suo antico ambiente, senza dubbio; ma subito ne troverà un altro, dove potrà entrare senza sforzo, non costretto per questo a mettersi in un circolo ricreativo o di studio. Ai convertiti ripugna, infatti, lasciarsi accaparrare: diffidano di tutte le apparenze di clericalismo. Offriamo loro comunità di vita religiosa, dove, senza dover dare altra adesione che quella del battesimo, troveranno ugualmente un ambiente, un’anima comune, un’amicizia ed un sostegno.

Basterà questo per garantire la loro perseveranza?

No davvero. Bisogna evitare degli scogli per non urtarli, e ricorrere a dei mezzi per spalancare loro tutte le strade della salvezza… Del resto, non sapremmo fare di meglio che lasciare la parola ad uno di essi. Abbiamo chiesto ad un giovane maestro della nostra parrocchia, battezzato qualche anno fa, ciò che pensa della questione. Ecco quel che ci ha detto:

I – La conversione è un fatto individuale: nell’epoca moderna non si vedono più conversioni in massa, come ai tempi apostolici.

II – II convertito è in una condizione incerta, ed attraversa una crisi dolorosa, nella quale brillano per lui i valori cristiani, nuovissimi e freschissimi. La sua vita cristiana si appoggia non ad un’abitudine, ma ad un dolce impulso interiore, accesogli dentro da una parola di Cristo, o dall’incontro con un suo determinato sentimento. Tuttavia, lo accerchiano ancora molti problemi e molte difficoltà.

III – Bisogna dunque che il convertito sia collocato in un ambiente dove il cristianesimo è vissuto e pensato. Egli deve spesso lottare molto per piegarsi agli «atti esterni»: entrare in un confessionale, fare il minimo segno della croce, assistere alla messa, partecipare ad una processione.
Bisogna che la realtà o il simbolismo, il significato degli atti della Chiesa gli siano spiegati. Bisogna che le cerimonie parrocchiali, la liturgia, le feste siano una iniziazione ai misteri della vita divina.
A causa della mentalità spesso un po’ spiritualizzata del convertito, non bisogna che egli sia urtato dalle pesantezze materiali: cassette delle elemosine, questue che disturbano il raccoglimento, sermoni politici o troppo spesso riguardanti la vita sociale, borsa nera, insegnamento. Non saprei dire il bene che fecero ad un convertito certi colloqui innestati su questi versetti di san Giovanni: «Miei diletti, amiamoci fra noi, poichè l’amore viene da Dio e chiunque ama è nato da Dio. Chi non ama non conosce Dio, perchè Dio è amore» (I Giov., IV. 7). E specialmente questo passo: «Chi non ama il fratello, che può vedere, non amerà mai Dio, che non ha mai visto» (1 Giov., IV, 20).

IV – Il convertito ha bisogno d’essere edificato, di incontrare cioè la traccia della santità, di respirarne una volta il profumo.

  1. non nascondendogli che presso i cristiani l’etichetta non può in alcun senso coprire la mercanzia, che non tutti sono edificanti (vedi la bella franchezza degli statuari medievali); niente di meglio per un convertito che sapersi in un ambiente che non ammette lo spirito «di setta» e dove le «bigotte» non sono incensate.
  2. metterlo a contatto con un ambiente veramente cristiano (anche per un intellettuale il fatto di vedere dei giocisti). Visione d’una vita cristianizzata, dove i sacrifici fatti alla purezza non ne hanno per nulla ridotto l’essenza, ma le danno invece giovinezza, vita più abbondante, più aperta, più franca.

V – Il convertito ha bisogno d’edificarsi: e cioè, perchè progredisca nella conversione e nella vita spirituale, perchè «cammini», importa che sia iniziato all’azione, invitato ad amare praticamente i suoi fratelli.

VI – In seguito alla conversione, il convertito è spesso un isolato nel suo intimo. Bisogna che sia invitato ad entrare nella «fratellanza cristiana», senza che la sua timidezza sia trattata duramente. Egli deve sapere che, quando le funzioni sono finite e la chiesa è chiusa, può ricorrere all’amicizia del prete al di fuori della distribuzione dei sacramenti. Ha bisogno d’essere conosciuto e guidato, rafforzato, incoraggiato, iniziato ad una cultura religiosa personale, per mezzo di libri che gli vengono indicati e che egli potrà procurarsi o farsi prestare. Bisogna che il convertito si senta

N.B. – Talora i neofiti sono crudeli di fronte agli increduli: talora, invece, individui sull’orlo della conversione incontrano un ostacolo in quella specie di rottura con l’ambiente a cui appartenevano. È importante mostrare a tutti il rispetto del pensiero, la stima dovuta agli increduli, l’amore di Cristo che invita e cerca tutti, e spezzare assolutamente il sospetto di insincerità e di amoralità, spesso ingiusto, che grava sugli increduli e che arrischia d’ancorarli nella loro incredulità.

Tutto l’essenziale è detto in queste linee, riguardo a ciò che dobbiamo fare per aprire le nostre parrocchie ai neofiti. Se vogliamo veramente che esse siano penetrate di spirito evangelico, e cioè della costante preoccupazione della centesima pecora da riprendere e del suo valore preminente sulle novantanove fedeli, è ben evidente che tutto deve risentirne: i nostri sermoni, le nostre cerimonie, il nostro comportamento.

«Il convertito deve lottare per piegarsi agli atti esteriori», dice il giovane maestro. Bisogna capirlo, e quindi non scandalizzarsi di certe reticenze, di certe esitazioni. Mettiamoci il tempo e soprattutto la pazienza necessari. Non chiediamo nulla prima che sia stato ben spiegato e ben capito. Pensiamo che un’iniziazione di pochi mesi non può aver preparato ai particolari» come un’iniziazione familiare. D’altronde ciò che il convertito non possiede come «abitudini» non lo compensa forse in dinamismo? Non «urtiamo» il convertito con le «pesantezze materiali». Quanti nostri convertiti della I.O.C., quanti nostri militanti venuti dalla piena massa sono stati urtati da certi parroci! Più nuovi, più esigenti, più entusiasti, essi sono intolleranti di certe piccolezze che a noi sembrano normali. Quante preoccupazioni d’etichetta, di precedenza, e quante strettoie di regolamenti li scandalizzano!… Non lasciamoci a nostra volta scandalizzare da loro. Essi sono più logori. Non restiamone stupiti. Cerchiamo di capire che parlano a noi come ai loro compagni di laboratorio.

Formiamo anche i nostri parrocchiani a questa accoglienza dei convertiti. Non si meraviglino nel vedere che diamo la preferenza, il primo posto a qualcuno che sinora non era vissuto in modo esemplare. Preveniamo i nostri fedeli contro lo scandalo farisaico. È così evangelico, questo, e tuttavia così raro nelle nostre parrocchie tradizionaliste. Facciamo vedere ai nostri parrocchiani che certe cose possono essere permesse ad un convertito, ma non a loro. Ecco un esempio.

La Missione di Parigi, per trascinare l’ambiente proletario, si attacca alle squadre miste di divertimento. I missionari potrebbero già darci veri fioretti su questo nuovo apostolato. Sarebbe a dire che consiglieremo le squadre miste ai nostri giocisti? No: nulla di più pericoloso per essi. Se alcuni laici, accuratamente scelti e preparati, possono permettersi un agganciamento difficile, accadono catastrofi quando una sezione giocista vuol fare altrettanto. Ogni volta che una sezione ha la pretesa di organizzare un apostolato misto, passeggiate miste, vi affonda. È molto semplice: i nostri giovani, le nostre ragazze, anche quelli che hanno mantenuto di più il contatto col popolo, con la massa, non sono preparati a ciò. Per loro, è come un regresso. Invece un convertito, che non ha conosciuto altri generi di ricreazioni, può perfettamente restare a contatto coi suoi antichi amici. Per lui si produce un’ascesa ed egli sarà capace di formare un ottimo nucleo. Sappiamo capire bene in questo senso il convertito. Egli ci porta tutto il suo ardore di neofita, tutto il suo dinamismo. Non scoraggiamolo: approfittiamone, invece.

È evidentissimo che, se noi possiamo offrirgli solo il Circolo maschile o la riunione delle donne cristiane come campo di apostolato, egli sarà renitente, a meno che non vi si demoralizzi e non vi intristisca. Ha conosciuto altre miserie, porta in cuore altre angosce, è fatto per orizzonti diversi dalle piccole lotte intestine di quelle brave persone. Manteniamolo unito al suo ambiente, di cui porta la responsabilità. E se gli offriamo l’appoggio d’una comunità di vicinato, possa egli capire che non lo facciamo per accaparrarlo. Meglio ancora: siamo disinteressati. Abbiamo un neofita pieno di zelo, che conosce bene la massa: perchè non mandarlo dove potrà rendere di più, alla Missione di Parigi, per esempio? Cerchiamo di avere un po’ di spirito cattolico. Che se poi vogliamo tenere per noi questi potenti fattori d’apostolato, sappiamo almeno non spezzare loro le ali. Essi hanno dei cumuli di valori da portarci: vedono con occhi nuovi, ascoltano con orecchie vergini. Ispiriamoci alle loro reazioni: esse ci faranno spesso scoprire bisogni e mezzi ai quali non avevamo pensato. Lasciamoli agire a modo loro, senza avere l’assillo di «ecclesiasticizzarli». Andranno forse un po’ lontano, ricorreranno talora a mezzi audaci, che noi non avremmo previsti. Saremo spesso sorpresi per i risultati che otterranno: acquisteremo per opera loro i migliori militanti e specialmente attraverso loro potremo fare molto apostolato diretto. È lì il loro dominio, quello dove devono portare la loro spontanea testimonianza. Ci aiuteranno a vivificare l’ambiente parrocchiale.

Che importa se al loro attrito certe vetustà si consumano e crollano? Per mezzo loro potremo ringiovanire la parrocchia e le daremo uno spirito nuovo.

In ogni caso, possiamo ben dire che da noi quelli che fanno un bene maggiore, che meglio seguono la parrocchia, che le danno il suo spirito, sono quelli di cui portiamo la storia religiosa nella nostra memoria. Nello stesso tempo essi sono stati convertiti dalla comunità missionaria e ci hanno aiutati a stabilizzarla.

Al disopra di tutte le difficoltà particolari e di tutti i mezzi speciali d’agganciamento, è chiaro che l’insieme della parrocchia, l’atmosfera che vi si respira devono essere accoglienti. Bisogna che, penetrando in chiesa, il convertito vi si trovi in casa propria, possa partecipare alle cerimonie e capirle, scoprirvi e sentirvi profondamente un’anima comune. Così sarà attaccato, e così soprattutto risolveremo il problema delle novantanove pecorelle e della centesima.

Invece d’abbandonare le fedeli per l’infedele, ci si servirà delle novantanove per raccogliere, riscaldare e conservare la centesima, venuta dagli scoscendimenti della montagna

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 368-373

RISULTATI E PROSPETTIVE

 

1. UNO SGUARDO A QUALCUNO DEI RISULTATI

C’è una domanda che credo vi facciano spesso: i vostri metodi danno buoni risultati? che cosa rendono?

Sì, questa domanda ci viene spesso rivolta. Confessiamo anzitutto che è alquanto puerile. Chiedere ad un metodo apostolico di dare prove di sè con risultati tangibili, è un voler misurare i fenomeni spirituali con strumenti di precisione. Un metodo potrebbe essere ottimo, senza però concludere con risultati apparenti. Le cose della fede sono del dominio invisibile, e solo Iddio può valutare il rendimento esatto d’uno sforzo apostolico. Talora un’opera lanciata con gran rinforzo di propaganda avrà un successo strepitoso che, dopo qualche anno, andrà in fumo. Talora invece un’altra, cominciata fra le difficoltà e nel silenzio, si svilupperà meravigliosamente dopo un lungo lavoro faticoso. E del resto, come conoscere tutti gli elementi che entrano in giuoco in un lavoro di apostolato? Circostanze di luoghi, di tempo, di persone: quante cose imponderabili influiscono sopra il risultato! Anche esaminandolo in sé stesso, com’è difficile essere giusti e com’è facile ingannare noi stessi o gli altri! Voi conoscete quello che è stato chiamato «il terzo modo di mentire»: dare statistiche esatte. Noi diffidiamo perciò sempre del successo proclamato in apostolato: rendiconti di bollettini parrocchiali, rapporti stabiliti per le visite pastorali, bilanci di Congressi di questo o di quello… È facile lumeggiare una prospettiva, porre in rilievo un piccolo trionfo, ridurre la portata di una sconfitta.

Nei primi tempi in cui cercavamo d’orientare la nostra parrocchia in un senso missionario, un interlocutore affezionato disse ad uno di noi:
— L’essenziale è che abbiate successo e possiate dimostrare fra qualche tempo che i metodi da voi usati sono buoni.

L’esperienza che già avevamo del ministero ci insegnava che egli s’ingannava e che i risultati in cifre e misure non erano gran cosa. Dentro di noi abbiamo sorriso della sua ingenuità e ci siamo affidati alla Provvidenza, confidando in essa più che nelle dimostrazioni matematiche dei nostri principi di apostolato.

Ma la Provvidenza vi ha favoriti in un modo che possa essere tangibile?

Ebbene, sì! La Provvidenza ha voluto che, quasi in modo tangibile, potessimo rallegrarci dei risultati dei nostri sforzi da cinque anni. Sin dal primo anno, come già dicemmo, abbiamo preso l’abitudine di fare un grafico delle presenze alle messe domenicali. E non solo di queste presenze, ma anche — in altri grafici delle comunioni, dei ritiri pasquali, delle riunioni quaresimali, delle riunioni a domicilio, dei congressi annuali, ecc… Cosicché, da un anno all’altro, è facile vedere i progressi o i regressi.

Voi avete visto questi grafici e constatato come noi che sono molto incoraggianti. Ecco all’ingrosso alcune cifre:

  • Presenze alle messe domenicali […]
  • Il grafico più incoraggiante è certamente quello delle presenze ai ritiri pasquali dei giovani, delle ragazze, degli adulti […]
  • E soprattutto quello delle comunioni pasquali […].
  • Non abbiamo segnate sui nostri grafici le comunioni quotidiane, ma l’abbiamo fatto abbastanza regolarmente sull’agenda delle messe, per poter dare cifre esatte […].

Ecco dunque delle cifre, per chi le vuole. Ma noi ne ricaveremmo una magra constatazione, se non capissimo nello stesso tempo che l’atmosfera generale della parrocchia è stata penetrata e che l’intero ambiente è stato segnato dal nostro apostolato missionario. Crediamo di poter dire senza nessuna pretesa che il clero e i cristiani godono simpatia nella nostra parrocchia e che persino i più lontani dalla pratica cattolica guardano con interesse la Chiesa. Tutti ammettono che le nostre cerimonie sono belle, comprensibili, popolari, che tutti sono ricevuti e trattati bene, e che non ci si fuorvia andando di quando in quando in chiesa, anche se non si pratica abitualmente. Le nostre cerimonie, oltre ad essere nelle mani dei militanti un mezzo per trascinare i loro vicini, sono nello stesso tempo, per gli altri, un pretesto per venire in una chiesa dove non si vedono che cose belle e dove non ci si annoia.

Avete un’idea esatta di coloro che ritornano così? Avete registrato vere conversioni?

È certo che ogni anno, a Pasqua, dopo lo sforzo della Quaresima o delle missioni, quelli che ritornano sono «antichi cristiani», pecorelle smarrite — talora da lungo tempo — ma che avevano già fatto parte del gregge. A questo proposito diremmo volentieri che le possibilità della parrocchia sorpassano quelle che don Godin aveva intravvedute. Come dicemmo al principio di quest’opera, il numero di coloro che hanno avuto qualche contatto con la Chiesa è tale da costituire un immenso campo di apostolato, che generazioni di preti possono lavorare senza raggiungere i confini. Don Godin ha dunque ragione di dire che la massa dei veri pagani non è raggiunta dalla parrocchia e che questa, anche se tutta consacrata alla sua conversione, non può che sfiorarla. Noi registriamo ogni anno battesimi e comunioni di adulti. È uno dei ministeri più consolanti per i viceparroci e per i loro aiutanti laici, la preparazione di questi adulti alla vita cristiana. Bisogna però confessare che:
1) sono casi relativamente poco numerosi;
2) si presenta un grave problema: quello della perseveranza di questi convertiti.

Partendo da questa doppia constatazione, si giunge ad una doppia conclusione:

  • il lavoro della «Missione di Parigi» è assolutamente indispensabile;
  • bisogna organizzare le nostre parrocchie in modo che non solamente provochino conversioni, ma garantiscano la perseveranza dei convertiti.

Non vorremmo infatti a nessun costo che certi lettori, inforcando come un cavallo da battaglia la nostra argomentazione e le nostre suggestioni, pretendessero che una parrocchia missionaria basti a sé stessa e che non è necessario cercare altri mezzi complementari d’evangelizzazione. Invece tutto ciò che abbiamo detto sulla distanza che ci separa dalla mentalità popolare, sul carattere «collettivo» della mentalità operaia proletaria nell’ora attuale, ci fa pensare che è indispensabile intraprendere il lavoro apostolico con un vero paracadutismo in piena massa. Qualunque sia la fiducia che abbiamo nel nostro compito parrocchiale, qualunque sia l’amore che gli portiamo, cerchiamo tuttavia di sostenere, d’incoraggiare l’ardito lavoro di quelli che prenderanno l’opera da un altro capo. Non è il momento di fare gli scettici, nè soprattutto di fare dell’ironia sugli sforzi tentati. «Dummodo Christus annuntietur» diceva san PaoIo. E più ancora: cerchiamo di capire come sia più arduo scovare un metodo e tracciare un sentiero, che seguire la strada battuta. Abbiamo anche la carità d’essere indulgenti verso i passi falsi arrischiati dai pionieri, che forse non avremmo il coraggio di seguire o d’imitare. Nel nostro ambiente ecclesiastico, nulla è più penoso delle critiche o delle facezie a porte chiuse contro le arditezze di certi confratelli che dovremmo incoraggiare ed imitare. I laici sono spesso più comprensivi di noi. Niente nel clero è più nefasto per lo spirito apostolico.

Abbiamo udito spesso certi parroci alzare la voce contro ciò che chiamavano la «deformazione del seminario». Non abbiamo intenzione d’iniziare qui questa discussione, ma ci permettiamo almeno questa parentesi: non è all’uscita dal seminario che i preti mancano di generosità, ma piuttosto qualche anno dopo. Badino i parroci a non deformare i loro vicecurati più di quanto i direttori abbiano deformato i loro seminaristi; non siano le conversazioni di sagrestia o le riunioni decanali più deprimenti per i giovani preti di quanto lo fossero le conversazioni di seminario: vi si faccia meno allusione a «promozioni», a «buone parrocchie»; vi si metta in mostra meno scetticismo, meno importanza pastorale; si vedrà allora che i nostri giovani confratelli conserveranno più a lungo lo zelo e il coraggio apostolico.

Chiudiamo questa parentesi. Affermavamo che la Missione di Parigi ha un posto necessario e che esso lo sarà tanto più quanto le parrocchie diverranno maggiormente missionarie: poichè allora i loro sforzi saranno meglio congiunti. La Missione di Parigi non correrà più il rischio di lavorare nel vuoto e di far buchi nell’acqua: il suo lavoro, sincronizzato con quello delle parrocchie avrà la probabilità d’essere più efficace, e i suoi successi quella d’essere più duraturi.

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 357-367

Parlavate di compromettersi per la «squadra». Che cosa intendevate dire?

Questo è uno dei punti più delicati e indubbiamente il più difficile. Ne abbiamo abbozzato l’idea poco fa, quando dicevamo che bisogna assolutamente impedire a chiunque di mettere il dito fra l’albero e la scorza, e che nessun membro della squadra deve in qualche modo accaparrarsi le simpatie. Ma è una cosa talmente importante, che ci ritorneremo su.

Concretiamo il nostro pensiero in un esempio.

Ecco un parrocchiano, diciamo anzi una parrocchiana, che è in urto con un membro della squadra: col parroco, supponiamo. E per meglio rinforzare il caso, supponiamo che il punto di vista del parroco sia discutibile. Quella brava persona viene da uno dei vicecurati, per esporgli il caso e per difendere la causa di cui è la vittima. Vi sono per il vicecurato tre possibili atteggiamenti:

1) darle ragione e dare torto al parroco, il che non si deve evidentemente fare;

2) ascoltare a lungo le lamentele (sono sempre lunghe), consolare, cercar di spiegare le ragioni del parroco, senza compromettere sé stesso;

3) compromettersi a fondo, unirsi al giudizio della squadra e non ammettere le ragioni che gli vengono opposte.

Quest’ultimo atteggiamento può sembrare intransigenza. Diciamo tuttavia che, data la mentalità dell’ambiente parrocchiale, e specialmente delle donne, è l’unico atteggiamento da assumere. Bisogna assolutamente rifiutarsi di fare da giudici, se si è richiesti: altrimenti, anche se si spiegano le ragioni dell’altro, va a finire che l’interessata riterrà sempre che non le si dia completamente torto. Accettando d’essere giudici, si rimane tagliati fuori e al di sopra della squadra. Non si deve assolutamente accettare una simpatia fondata sull’antipatia riguardo a un altro membro della squadra. È indispensabile che i fedeli capiscano che il blocco è infrangibile… Noi pensiamo che questa intransigenza, ben lungi dal nuocere al bene generale, lo serva. Essa richiede una grande abnegazione: quella d’addossarsi i torti degli altri e magari, se occorre, l’odiosità d’una decisione che segretamente si biasima. Dopo, il vicecurato vada dal parroco e gli domandi di sistemare le cose. Ma è evidente che si tratta di cosa diversa. Deve essere l’interessato a discutere, a concedere: non un terzo, anche con le migliori intenzioni del mondo.

Dai bei momenti che ho trascorsi in mezzo a voi, mi sembra che la vostra comunità sia molto allegra…

È il risultato d’un altro nostro principio: ricrearsi insieme. In una vita così attiva, ci vogliono momenti di riposo; e questi momenti di riposo devono essere momenti di gioia.

Essersi divertiti insieme non significa certamente aver perduto tempo. Monsignor Dupanloup, nel suo Trattato dell’educazione, dice:
— Quando sentite soffiare nella vostra scuola un vento di critica o di malanimo, approfittate della prima giornata di bel tempo per mandare gli alunni ad una lunga passeggiata. Alla sera, ogni traccia di cattivo umore sarà sparita.

Tra noi, beninteso, non si tratta di malanimo o di malumore, poichè la squadra è ben saldata; ma non siamo tutti un po’ bambini? e lo spirito migliore non è quello di famiglia? Ora, ogni famiglia ha le sue feste, le sue birichinate, i suoi piccoli litigi, i suoi piaceri in comune. Essi rappresentano i buoni ricordi, che in seguito fa piacere rievocare. In base a tale spirito, non è inutile che al presbiterio «si faccia un po’ di chiasso»: è anzi molto opportuno che lo faccia anche il parroco. Ci sarà anzitutto la festa di ciascun membro della squadra: e non ci si accontenta d’un pranzetto più abbondante, con un po’ di fiori, ma sarà veramente un giorno di festa. La sala da pranzo è addobbata: sono stati invitati i migliori amici del «festeggiato». Alle frutta, i più maliziosi cercano di avere in serbo qualche facezia. E perchè non anche qualche scenetta, qualche canto improvvisato? Abbiamo persino avuto qualche proiezione a colori, che rappresentava la vita del «santo», cioè del confratello festeggiato, ecc… Ogni tanto fa furore una bella pellicola: perchè non andremmo a vederla insieme? Oppure c’è da dibattere una questione importante: il tempo è bello: via, inforchiamo le biciclette e andiamo a discutere sull’erba. Un anno siamo giunti a fare per qualche giorno una colonia estiva di vicecurati sotto la direzione del parroco: che bella cornice, le montagne, per elaborare fra due ascensioni il piano di un’annata! Torneremo certamente a farlo.

Noi non siamo puri spiriti. Non dimentichiamolo mai. Anche il nostro corpo e il nostro cuore hanno bisogno di vivere in squadra, di riposare in squadra.

Insomma, voi pensate ad una vita in comune?

Sì, e nel senso più forte della parola. Del resto, non vogliamo con ciò nessuna modalità esteriore di questa vita comune, come se essa esigesse necessariamente nel nostro pensiero la vita religiosa, coi suoi voti di povertà e d’obbedienza, con la sua regola, coi suoi esercizi spirituali, ecc… Ciò che preconizziamo, lo crediamo realizzabile per preti secolari. È indubbiamente richiesto un minimo di comunità fisica: come lavorare insieme, se non ci si vede fuori della chiesa o della sagrestia? Ma noi abbiamo ancora altri scopi: una comunità spirituale. Nella stessa vita  religiosa questa comunità potrebbe non essere realizzata: ed è possibile anche nella vita secolare. «Vivere insieme» significa soprattutto mettersi in armonia con gli altri. Ciascuno ha il proprio temperamento, il proprio carattere: ciascuno ha anche la propria grazia, che non è quella del vicino. Tutto questo è una grande ricchezza. Bisogna scoprire le ricchezze, i valori degli altri, per assimilarseli. Bisogna essere felici che gli altri non siano come noi, che abbiano un valore diverso dal nostro, punti di vista che ci sfuggono, doni particolari che mancano a noi. Quanto più c’è diversità, tanto più è ricca la comunità. Anche i difetti devono essere accettati in tutta semplicità: per lo più essi non sono che il rovescio delle qualità positive. Questo non impedisce l’aiutare il loro proprietario ad emendarsene. Che uno sia un po’ turbolento, che metta nella vita comunitaria un po’ di rumore o magari anche di disordine, che coi suoi canti disturbi un tantino i compagni in un mattino in cui essi vorrebbero preparare una predica, transeat! ma poi a tavola egli sarà il giovialone che terrà allegri tutti e quello che domani rialzerà il morale abbattuto. Un altro, invece, sembrerà talora esigente, meticoloso nell’ordine che richiede o nelle precisioni che pretende; grazie a lui tutto non va a rotta di collo e a fine d’anno, allorché ci vorranno i conti o ci sarà bisogno di consultare gli archivi, è lui quello che potrà fornire i dati.

Vivere insieme significa per forza avere un ritmo comune. Bisogna scoprire il ritmo della squadra, come essa è composta. Non è sempre facile, perchè quel ritmo è composto dalla velocità dell’uno e dalla lentezza dell’altro, dalla perspicacia di taluni e dallo scrupolo d’un altro; uno solo però di cui si deve tenere conto: piegarsi a questo ritmo (all’incirca quel che succede in una squadra di rematori) vuol dire assicurare il buon andamento della barca. Al parroco, per la maggior parte del tempo, toccherà temperare l’esuberanza e le impazienze degli uni, far valere servigi resi dagli altri. Bisognerà anche che questo cammino in comune sia una ascesa ed un progresso.

E voi volete questa vita comune persino sul piano spirituale?

Soprattutto sul piano spirituale. Noi non siamo solamente una squadra di propagandisti, ma anche una squadra di preti, membri di Cristo Sacerdote, inter mediari fra Dio e gli uomini per la circolazione della vita divina nell’umanità. Questa condizione non potrebbe non richiedere, da parte di coloro che la professano insieme, uno scambio più profondo degli scambi d’organizzazione o di tattica apostolica. Noi dobbiamo fare squadra in pieno soprannaturale, ascendere insieme, prendere a carico di tutta la nostra anima il livello spirituale della squadra, dare agli altri la parte migliore di noi (Dio che abita con noi, con le sfumature della sua grazia) e cercare di trarre profitto dalla parte migliore degli altri. Dobbiamo pregare insieme: non solo con «esercizi» comuni e previsti — sebbene ciò sia possibile ed utile — ma con l’unione dei cuori nel tenore della nostra preghiera. I nostri fratelli d’arme non possono essere assenti dalla nostra preghiera: e come è facile ciò quando il lavoro di ciascuno è conosciuto da tutti, diviso da tutti!

Prendiamo l’orazione: il fatto d’essere uniti, non è una necessaria preparazione all’orazione? La prima condizione per farla bene è che la carità di Cristo sia diffusa in ciascuno dei nostri cuori e li innalzi insieme verso il Padre. Facciamo il conto delle distrazioni che ci assalgono durante l’orazione, e vedremo che in massima sono fatte di piccoli astii, di rancori, di ricordi amari. In una comunità disunita, si potrebbe dire che la maggior parte delle distrazioni è nutrita dalle difficoltà d’adattamento e dagli urti fraterni: una gran parte delle forze spirituali è impiegata per colmare le brecce fatte alla carità. Uniamoci, invece, e l’orazione sarà già liberata da questa preoccupazione. Ma questo è l’aspetto negativo. C’è l’aspetto positivo: se si è preoccupati del livello spirituale della squadra, se ne siamo inquieti come del proprio livello, se si ha cura d’aprirsi totalmente per dare agli altri il meglio di sé stessi, la parte più ricca e più ardente, non si esiterà a comunicare loro i propri argomenti di orazione, i pensieri suggeriti da una certa lettura, da una certa esperienza.

Notiamolo: è forse la cosa più difficile e più rara che vi sia: si fa volentieri la messa in comune delle idee care sul piano intellettuale; ma quello scambio del cuore in cui si dice non solo quel che si pensa, ma anche quel che si sente, in cui si parla non delle difficoltà in generale, ma delle proprie difficoltà, appartiene all’amicizia. E non deve essere amicizia quella di una squadra di preti che vivono la stessa vita soprannaturale e sacerdotale? Per riuscirvi, non bisogna attendere che il vicino abbia cominciato: bisogna che cominciamo noi stessi, che ci affidiamo per primi, senza nemmeno sapere se l’altro si aprirà.

Perchè non fare anche insieme la lettura spirituale, non certo in virtù di un’usanza stereotipata, secondo la quale solo il parroco impone il libro che ha scelto, ma spontaneamente, perchè un membro della squadra ha trovato un bel brano che vuol far conoscere agli altri? Oppure, essendo stato pro posto in anticipo un argomento, ciascuno porta ciò che ha trovato su quell’argomento, e così viene messo in comune tutto quel che ciascuno ha pensato e sentito al riguardo. Questo ci accade abbastanza spesso. C’è un arricchimento maggiore di quello in cui uno solo propone le proprie idee, come nelle comunità dove il superiore «fa la lettura spirituale».

E così per tutti gli esercizi della vita interiore.

Se vegliamo davanti al SS. Sacramento, vegliamo a nome di tutti: e quando c’è da intraprendere una grande offensiva parrocchiale, facciamo insieme la veglia di preghiera davanti al Tabernacolo. Se recitiamo il nostro breviario, sebbene questa recitazione sia individuale, la garantiamo «in coro» coi nostri fratelli, perchè siamo incaricati della lode di Dio. Se celebriamo la messa, la «concelebriamo» in spirito con coloro che hanno missione comune di offrire alla Trinità il sacrificio di Cristo, a nome e a beneficio di questa parrocchia. La messa “pro populo”, che canonicamente incombe al solo parroco, noi la celebriamo spiritualmente ogni giorno, come un elemento di quella messa universale che viene quotidianamente offerta dal sacerdozio cattolico. Se uno di noi ha una difficoltà, gli è possibile attirare spontaneamente i confratelli che incontra a venir a pregare con lui.

La preghiera comune ci darà un grande aiuto. Bisognerebbe che fosse veramente fraterna e che aderisse pienamente a tutta la nostra vita.

Certamente questa vita in squadra deve essere una straordinaria fonte di forza; ma quante rinunce deve portare con sè!

In principio, sì: ed anche lungo la strada… L’ascesi della vita in squadra è discretamente «purificante», come dicono gli autori spirituali. Vivere così presuppone (o genera) un distacco, un’espropriazione, una sottomissione alle esigenze del bene comune, una lotta continua contro gli impeti d’orgoglio, di gelosia, ecc… cose tutte, che fanno soffrire. Bisogna perdere il proprio «io», non cercare il proprio riposo, non tastarsi il polso, non agire con una mentalità da funzionario, rinunciare alla stima che si potrebbe captare solo per sè, rifiutare Io spirito di concorrenza, mettere da parte la preoccupazione di formarsi un regno personale, accettare gli altri e camminare secondo la loro cadenza. Occorre molta semplicità: e voi sapete che non è semplice acquistare la semplicità. Ma se si è entrati di cuore in questa strada, si sbocca rapidamente nella gioia, nella pace; i risultati apostolici si moltiplicano e la vita interiore sale ad un livello assai più elevato. Ascesi, certo; ma ascesi sacerdotale, quella forma di ascesi che ci è propria, e al di là della quale non c’è più bisogno di andare a cercarne altre, che. sarebbero incompatibili col nostro ministero.

Vi sono (ne siamo sicuri) molti giovani preti che desidererebbero fare squadra coi loro confratelli. Quante confidenze abbiamo ricevuto a questo proposito! Sarebbe presuntuoso fare voti che le amministrazioni diocesane, invece di preoccuparsi innanzi tutto di «tappare i buchi» per il cammino di questa o quell’opera, nel fare le nomine, si preoccupassero di formare squadre che s’intendano bene e che lavorino insieme? La cosa è forse più facilmente realizzabile di quanto non sembri. In tutti i casi, sia per i confratelli già entrati nel ministero come per quelli che vi giungeranno, desideriamo ed auguriamo quella grande gioia, quella potenza di lavoro e di conforto che derivano dalla squadra.

Una volta costituita, credete che la squadra possa vivere?

La prima condizione perchè essa viva è che ciascuno, invece di dirsi: «Ah, se gli altri volessero fare squadra!», si dica: «Farò squadra, voglio realizzare la squadra, caricandomi sulle spalle le concessioni che gli altri non hanno ancora avuto nè l’idea nè il coraggio di prendere».

E perchè la squadra sfidi l’abitudine fatta dal tempo e trovi in sè quella continua novità che è una condizione di vita e d’entusiasmo, è importante che tutti, il capo e gli altri, conservino quello che noi chiameremmo volentieri un temperamento «rivoluzionario»: naturalmente, non un temperamento da ribelli, che sarebbe contrario allo spirito di squadra, ma quell’incessante bisogno di ricerca, quella speranza d’un divenire migliore, quella mancanza di soddisfazione della missione compiuta, mediante cui si va continuamente alla ricerca del meglio. Essere rivoluzionari nel senso inteso da noi non vuol dire avere idee nuove che si mettono in pratica lì per lì, per poi lasciarsi stagnare nell’abitudine: vuol dire ripensare incessantemente i problemi, riadattarsi alla mobile realtà, riprendere il cammino verso qualche grande speranza.

Per fare una squadra, bisogna volere insieme, ma soprattutto sperare molto insieme. Questa speranza forma la coesione di tutte le squadre d’esploratori e di missionari: perchè non dovrebbe formare anche la nostra nella grande missione del paese di Francia?

Avete anche parlato di fare squadra con la parrocchia: come intendete ciò?

La squadra sacerdotale non deve essere che il nocciolo, la cellula della squadra parrocchiale. Non vi sarà comunità parrocchiale, se non c’è al centro una comunità sacerdotale; ma questa comunità centrale deve includere tutti gli elementi attivi, tutti gli elementi militanti, sino alla periferia della parrocchia.

Perchè non interessare tutta la parrocchia del proprio cammino? Poichè, in fin dei conti, la parrocchia è costituita dai fedeli assai più che da noi; una volta noi non eravamo in questa parrocchia, e verrà indubbiamente il giorno in cui saremo chiamati ad un altro posto; invece i fedeli vi nascono e vi muoiono Noi non siamo che i loro mandatari, i loro intermediari. Diffidiamo dunque della tendenza che ci farebbe dire incoscientemente: «La parrocchia siamo noi…». Che danno, anche, quando i fedeli confondono la parrocchia con chi la dirige! non pensano che è affare loro, opera loro, e che spetta a loro interessarsene.

Confessiamo, del resto, che sarebbe spesso difficile per taluni partecipare al cammino della parrocchia. Quanti parroci chiedono soltanto che le loro pecorelle siano fedeli alle consegne che essi danno loro: Ma non è così che si formano i caratteri forti, le energie virili di cui la Chiesa ha bisogno.

È evidente che bisogna fare squadra con la parrocchia. E non si tratta per questo di riunire ufficialmente non so quale comitato o quale assemblea, per sottoporre loro bilanci o rendiconti: cosa che per lo più termina con una generale soddisfazione, quando non dà luogo ad assurde critiche che svisano la situazione. Si tratta di adottare al riguardo dei parrocchiani un comportamento che li integri realmente con la vita, con l’andamento della parrocchia. Noi abbiamo dei movimenti di laici: siano i laici ad averne veramente la direzione: essi devono sentirsi lì in un affare di loro spettanza, e non devono tremare od essere costretti a chiedere ogni specie di permessi al parroco, per tutto ciò che non compromette nè la fede, nè i costumi, nè il buon andamento dell’insieme. Lasciamoli liberi d’organizzarsi e di discutere: assumano loro le proprie responsabilità. Quando abbiamo bisogno del loro concorso, parliamo loro come ad adulti, non come a bambini: sollecitiamone l’aiuto, esponiamo le nostre ragioni e i nostri fini, piuttosto che imporre loro i nostri ordini. Ma siano soprattutto portati a parlare spontaneamente, per dirci le loro idee, i loro desideri, le loro lagnanze, le loro critiche e quelle del loro ambiente. Quante volte, nelle riunioni di militanti dei quartieri, abbiamo avuto suggerimenti e consigli! Abituiamoli ad altro che ad incensarci sempre in nostra presenza. Ci sappiano realisti, capaci di accettare un rimprovero: vedano che sappiamo ricevere un’osservazione da parte loro ed ammettere che essi sostengano una posizione opposta alla nostra, senza accusarli di mancarci di riguardo.

Quanto al complesso dei parrocchiani, membri o non membri dei movimenti specializzati, è necessario che ciascuno si senta utile personalmente ed impegnato. In molte delle nostre parrocchie c’è un grossissimo difetto, certamente assai difficile da correggere: quello che l’insieme dei cristiani si scarica, su un piccolo numero di «dirigenti», della cura di rea lizzare il lavoro apostolico. È evidente che vi saranno sempre dei seguaci, le persone «molto devote»; ma bisognerebbe che progressivamente essi si sentissero sempre più (ci si perdoni l’espressione in voga) «interessati all’andamento dell’impresa». Per giungere a ciò, nulla vi è di più dannoso — a parer nostro — di quelle periodiche riunioni di stato maggiore, in cui i capi o i presidenti delle diverse opere, sotto la presidenza del parroco, ricevono da lui consegne che li trasformano in esecutori.

Bisogna capire quale impressione devono ricevere un gruppo di scouts o una sezione giocista, quando il capo scout o il presidente giocista arrivano con un lotto di consegne che devono armonizzare — non si sa come — con l’andamento esatto del gruppo o della sezione. C’è di meglio da fare, per destare il loro interesse e il loro slancio. Le consegne necessarie alla marcia conquistatrice della parrocchia devono essere date in chiesa, allorché tutta l’assemblea cristiana è presente alla messa domenicale e può essere così trascinata a partecipare a quel cammino-marcia. È dal pulpito che bisogna non solo dare le consegne, sempre numerose, ma anche presentare gli obbiettivi, i successi e gl’insuccessi, dire ciò che si aspetta, su che cosa si fa assegnamento, mettere insomma in mostra sotto gli occhi di tutti i parrocchiani la vita parrocchiale. In certi giorni, il miglior sermone del parroco sarà una serie d’avvertimenti, un’occasione di trattare delle operazioni in corso per la realizzazione dell’opera missionaria. Una parrocchia è una immensa «opera», un’immensa famiglia, dove il padre parla con semplicità, dove i figli sono formati a reagire spontaneamente, ad interessarsi ad agire al servizio del bene comune.

È essenziale che questo soffio dal largo — duc in altum  — attraversi tutti i cuori, li unisca, e che in questa atmosfera missionaria tutti, grandi e piccoli, crescano e si sviluppino.

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 342-356

2 – Lo Spirito di squadra

Tutte queste riforme di struttura, destinate a trasformare la parrocchia e a renderla missionaria, non superano le forze di un parroco, per ardito e coraggioso che sia?

Certamente: perciò per giungere allo scopo, facciamo assegnamento non su un uomo, ma sull’intera squadra sacerdotale. Diremmo anzi volentieri che bisogna cominciare dalla costituzione di questa squadra, perchè essa è la condizione sine qua non di tutto il resto.

Intendete indubbiamente dire che i membri del clero devono coordinare i loro sforzi, vero?

Da principio, sì. «Squadra parrocchiale» significa innanzitutto «squadra sacerdotale»; ma noi andiamo più lontano e pensiamo che il clero deve fare squadra con tutti gli elementi vivi e conquistatori della parrocchia, per condurre un’offensiva costante, sempre in movimento, nella quale nessun elemento militante è trascurato.

Tuttavia, come voi pensate, il clero non può fare squadra coi laici, se prima non costituisce « un blocco ». Lì è la chiave di volta di tutto l’edificio. Nulla avremmo noi fatto in questa parrocchia, se non fossimo stati uniti come le dita- d’una mano. E se anche ciascuno di noi avesse ottenuto apprezzabili risultati nel suo proprio dominio, non avremmo nessuna fiducia nell’avvenire. Quel che ci dà fiducia è che niente di ciò che qui è stato fatto è opera di un solo fra noi, ma che tutto, in certo qual modo, è stato fatto da tutti.

Ci troviamo di fronte ad un lavoro troppo ponderoso, per pensare di condurlo a buon fine in altro modo che in squadra. L’opera da abbattere è gigantesca e straripa su noi da tutte le parti. Se si paragona lo spiegamento del paganesimo contemporaneo con lo spiegamento degli eserciti tedeschi sul nostro paese nel 1940, come pensare a frenarlo «colmando delle sacche» qua o là, in ordine disperso? Ci vuole una controffensiva organizzata, che utilizzi tutte le armi secondo un piano costantemente messo a punto. Se lavoriamo in ordine disperso, siamo battuti in anticipo: registriamo cioè successi locali che ci illudono, mentre l’insieme del fronte spirituale resta in mano al nemico. Per riuscire, bisogna che nessuno faccia banda a parte; ma che tutti lavorino in comune, su un piano elaborato in comune, come diremo meglio fra poco. E del resto, è l’unico mezzo per catalizzare i «refrattari». Potete immaginare che all’inizio di uno sforzo come il nostro, da parte dei laici «parrocchiani» (e specialmente delle donne) non si incontrano soltanto benedizioni ed incoraggiamenti! Ci sono dovunque persone cui non piace essere urtate e che sarebbero troppo felici di veder fallire le nuove formule, per conservare molto saggiamente le antiche.

Da poco tempo cercavamo di rendere più vive le nostre funzioni e di far partecipare tutti alla preghiera in comune, quando la signora X venne a fare visita al parroco, per dirgli:
— In verità, quando don T dirige la messa, non si è più tranquilli e non si può più pregare.
Sarebbe bastato un sorrisetto d’approvazione o di commiserazione da parte del parroco, perchè la buona signora non solo pensasse di trovare un alleato, ma andasse ancora a portare la buona parola a tutti i malcontenti.
— II parroco è costretto a tollerare cose che non può impedire.
Ma il parroco le rispose:
— Oh, signora! A me piace moltissimo il modo di fare di don T: son io a volere che egli faccia così e al presbiterio siamo tutti della stessa idea.
È evidente che il tentativo di reazione venne senz’altro eliminato…

Quante occasioni ci sarebbero, perchè ogni vicecurato possa trovare una cerchia «sua» e costituirsi un regno d’adoratori o d’adoratrici! Nel corso di un anno, durante un ministero in comune, s’incontrano molte anime che credono di non essere abbastanza comprese dall’uno o dall’altro, o che hanno soltanto bisogno di un conforto particolare e chiedono unicamente di lasciarsi assoldare da chi le desidererà. Minacciano così di creare non il partito (sarebbe dire troppo), ma il gruppo d’amici del parroco, quello del vicecurato, o del tal altro, e via di seguito. Ma se ogni volta che un parrocchiano, o una parrocchiana, vuole tentare di mettere così il dito «fra l’albero e la scorza», e sente che non c’è presa: se capisce inoltre che c’è non solamente una fredda ed ascetica volontà di non permettere alcun mutamento, ma anche un entusiasmo d’azione in comune, un’ammirazione spontanea e inesauribile per tutta la squadra sacerdotale, il suo braccio ricadrà disarmato. E quante mani, che si sarebbero prestate ad una piccola cerchia, si apriranno più largamente per il grande cerchio della parrocchia!

In quest’atmosfera, ciascuno può lavorare. È sicuro di non essere smentito, sicuro che nessuno lo colpirà alle spalle, che una responsabilità da lui assunta sarà assunta anche da tutti gli altri, che i suoi errori di tattica saranno giudicati, e spiegati con tanta benevolenza, con tanto affetto fraterno a chi non li ha capiti o a chi ne è rimasto ferito (salvo poi a dirgli a tu per tu: «Mio caro, credo che abbiate sbagliato…», che nulla ricadrà su di lui.

Tutto questo è una garanzia di forza, di sicurezza, e dà origine alla fiducia nell’azione. La vita in squadra rappresenta un appoggio spirituale e ci mantiene nella gioia. Quale prete, isolato nel suo settore, non conosce un giorno o l’altro lo scoraggiamento? Costretto a pensare da solo la propria azione, esposto alla contraddizione ed alla critica, dato che ciascuno dei confratelli ha «il proprio lavoro» come egli ha il suo, e vedendo talora nascere rivalità fra le sue opere e le altre opere della parrocchia, di fronte agli smacchi arrischia di chiudersi nel suo astio e di perdere lo slancio.

Quando invece il lavoro di uno è il lavoro di tutti, questo pericolo è eliminato. Si ha la confortante impressione d’appartenere ad un organismo ben vivente, nel quale ogni sforzo ha la sua efficacia. E poi, c’è quell’allenamento quasi necessario dell’ambiente, della gioia comune. Anche se la mattinata è stata dura, anche se in serata ci sono state molte noie, o contrarietà o preoccupazioni, quando si arriva a pranzo o a cena in mezzo agli altri tutti allegri, come resistere al riposo della letizia fraterna? Non tutti sono contemporaneamente di cattivo umore; se uno è triste, lo notano subito:
— Ebbene, che cosa c’è? … tutto qui? … ma voi esagerate!… vi hanno detto questo?… ma a me, invece, hanno parlato così…

Il compito del confratello è troppo gravoso?
— Niente paura! Vi aiuteremo.

Ed anche il cappellano incaricato della cappella di soccorso, laggiù, in piena zona (un lavoro tanto ingrato!) si sente sostenuto durante il giorno dal pensiero che alla sera ritroverà la fraterna e gioconda atmosfera del presbiterio. Si può persino dire che, in capo ad un certo tempo, si giunge a pensare e a reagire in squadra e con la squadra in maniera tale che i dati particolari del temperamento di ciascuno sono trascinati dalla corrente. E poichè una tradizione vuole che la squadra sia allegra, sempre allegra, o almeno sempre forte, si finisce per passare stagioni ed anni interi senza mai provare il senso dell’abbattimento.

Questa fraternità raggiunge — su un piano più elevato e in modo superiore — quella che si è conosciuta quando si era giovanotti, nel tempo che volentieri si chiama «bello». Fra noi, è sempre bel tempo. La gioia non fa mai difetto, sotto tutti gli aspetti. Notate che questa condizione di spirito ha già di per sè un risultato apostolico: trapassa, nostro malgrado, i muri del presbiterio. Ci diceva un parrocchiano:

— Si viene volentieri qui da voi, non foss’altro per il piacere di vedere come v’intendete bene fra voi.

Comunque, noi attribuiamo a questa causa la moltiplicazione delle vocazioni sacerdotali nella nostra parrocchia. Di dove verrebbe, dato che abbiamo messo il rallentatore alle opere, se non da quell’impressione di felicità, da quell’atmosfera di gioia che si respira intorno ai preti della parrocchia?… E’ la realizzazione del «quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum», già cantato dal salmista. Non sarebbe anche la grazia promessa da Nostro Signore: «Quando sarete parecchi riuniti in mio nome, io sarò in mezzo a voi? …». «In nome di Cristo» significa senza dubbio essere uniti dalla preghiera: ma non è anche, e forse più ancora, essere uniti dalla carità vera, effettiva, vissuta? Non sarebbe quest’unione la grande causa d’efficienza per il ministero, la grande sorgente di grazia, poichè Gesù promette d’essere fra noi, e quindi di prendere a Suo carico il lavoro?
— Siamo ben costretti ad intenderci fra militanti, poichè i nostri preti s’intendono così bene diceva ancora una militante ad un prete di passaggio che l’interrogava sul progresso dell’azione cattolica nella parrocchia.

Ma come concepite questo lavoro in squadra?

Fate bene a ritornare sulla parola «lavoro»: infatti, una squadra sacerdotale non è soltanto la riunione dei preti che vivono insieme e che vanno pienamente d’accordo. Questo non basterebbe: si tratta di molto di più.

Fare squadra significa volere insieme, pensare insieme, lavorare insieme, salire insieme, correggere le prove insieme, compromettersi insieme, rallegrarsi insieme.

Ecco un programma che ha parecchie parti. Che cosa intendete per «volere insieme»?

Bisogna anzitutto essere ben d’accordo su un certo numero di principi che costituiranno non un «metodo», ma un punto di vista, un insieme di «reagenti» comuni. Tocca naturalmente al caposquadra formare questo fondo comune, facendo adottare da tutti, i principi direttivi d’azione che egli preferisce e che sosterranno le discussioni. Il che non significa che i vicecurati non avranno da presentare i loro punti di vista, sin dall’inizio: ed ancor meno che il bagaglio non sarà modificato strada facendo. È però necessario sentirsi ben d’accordo subito ed imbarcarsi in comune per una stessa direzione.

Noi, per esempio, abbiamo cominciato col leggere insieme il libretto «All’indietro», pubblicato dal Rev. Padre du Passage: e possiamo dire che vi abbiamo trovato una dottrina di base. Poi, per meglio conoscere il problema operaio e quella massa alla quale ci attacchiamo, abbiamo letto «L’acciaio», un libro d’ispirazione socialista, ma d’un sincero realismo. Strada facendo, abbiamo letto alcuni romanzi di Van der Meersch. È probabile che, se «Francia, paese di missione» fosse uscito allora, non avremmo avuto bisogno di leggere molti altri libri… Per alimentare la fiamma, ed anche per amenità, decoriamo la stanza da pranzo con sentenze e con formule che aiutano a creare uno spirito comune; per esempio:
— Consideriamo nulla tutto ciò che abbiamo fatto sinora.
Oppure:
— Vale meglio morire giovane estenuato che vecchio ammuffito.
O questo estratto d’una lettera di san Francesco di Sales:
— Il Papa è ben lieto che l’abitudine autorizzi certe cose che non può Egli stesso autorizzare, per via delle conseguenze.
O ancora, queste parole attribuite a Pio XI:
— Noi amiamo tanto le tradizioni, che non esitiamo a crearne di nuove, ecc.

Se il capo della squadra sa anche invitare a tavola uomini che abbiano studiato i problemi popolari, farà presto a dare alla sua squadra quello spirito comune, quella dottrina comune che si elabora coi contatti come con le letture: e la tavola del presbiterio diventerà ben presto un focolare di pensiero, invece d’essere semplicemente un convegno di facezie. Così la squadra ha un’anima, un dinamismo, e può accingersi al lavoro.

Bisogna allora non solo che tutti abbiano dato la loro adesione di principio, ma che ciascuno capisca bene che egli occupa ed occuperà un posto necessario nel lavoro: bisogna che nessuno domandi, nè a sè nè agli altri, se si è utili a qualche cosa: che non si facciano confronti tra il proprio pensiero, il proprio lavoro, i propri risultati, e quelli degli altri; ma che si comprenda che tutti gli sforzi si perderanno — o meglio, si realizzeranno — nel medesimo risultato. Non è forse necessario essere d’accordo su un obbiettivo particolare preciso. Quale scopo esatto volete avere, arrivando in una parrocchia, se non quello di convertirla e di farvi del bene? Teorico, utopista, colui che all’inizio del suo ministero si facesse in anticipo un piano di teoria per parecchi anni!… Il primo anno — metà per ridere, metà sul serio — dicevamo: «Noi facciamo un piano quinquennale». Ma questo significava soltanto: «Desideriamo lavorare insieme almeno cinque anni, e durante questo tempo vogliamo fare squadra a qualunque costo».

Gli obbiettivi particolari si devono guardare non con un solo paio d’occhi, ma con tanti quanti sono i preti: devono essere pensati non da una sola mente, ma da tre, da quattro, da cinque. Abbiamo deciso una volta per tutte di voler avere un medesimo scopo, visto con chiarezza e desiderato con passione. Rifiutiamo di crearci scopi personali, limitati a noi, ciascuno in particolare. Vogliamo pensare tutti insieme il problema di tutto l’insieme, cioè di tutta la parrocchia. Nessuno cerca di camminare staccato dagli altri. Niente «scompartimenti» fra i membri della squadra: è la regola.

Uno scoglio costante del ministero parrocchiale è che ciascuno, chiuso nella propria opera, o in più opere, si ritiene l’unico capace di conoscerla a fondo. Là dove non sono assiti e dove tutte le specialità s’incontrano e si sostengono su ciascun settore territoriale, a nessuno viene l’idea di lagnarsi perchè gli altri «ficcano il naso negli affari suoi»… Badiamo a non esagerare in niente: questo non vuol dire che il prete incaricato dei fanciulli debba sapere a memoria i nomi di tutte le bambine, e viceversa. Ciascuno è padrone e indipendente; ma tanto più indipendente nel suo dominio in quanto è ben inteso che non si rivendica nè padronanza, nè indipendenza, nè dominio, e che le attribuzioni particolari non sono che elementi dell’opera comune.

L’unione è ancor più nella volontà che nelle occupazioni, le quali dividono necessariamente il tempo e differenziano le attività.

Questa volontà comune deve incontrare non pochi ostacoli nelle realizzazioni… particolari.

Ne incontrerebbe infatti, se non l’applicassimo in primo luogo a «pensare insieme» il nostro lavoro.

Abbiamo detto che bisogna guardare con tutti gli occhi lo scopo da raggiungere e che tutte le menti devono cercare il modo di arrivarvi. E realmente, se si ammette a priori che solo il parroco ha stato di grazia per vedere tutto, per pensare tutto, per prevedere tutto, per dirigere tutto, e che i collaboratori sono solamente manovali o esecutori dei suoi ordini, non è più il caso di parlare di lavoro di squadra. Se si vuole invece che tutti si interessino e si appassionino del lavoro, bisogna che tutti siano chiamati a pensare insieme i problemi, a dare le loro idee…

Ecco dunque la squadra riunita per elaborare un piano di lavoro. Non importa se la questione sia stata sollevata dal capo della squadra o da un altro: se viene presentata una questione, se viene esposto un problema, se ne discute insieme. Ciascuno parla liberamente, spontaneamente, con tutta la naturale passione o coll’abituale riserbo; espone il concetto che si è fatto. Le soluzioni vengono cercate insieme. Ma qui interviene una seconda regola della squadra, regola che deriva da ciò che abbiamo chiamato «l’ascesi sacerdotale»: non preoccuparsi di avere ragione, non rifiutare di avere torto. È chiaro che, se ciascuno si preoccupa anzitutto di far trionfare le proprie idee, non ci si intenderà mai. Tutte le idee hanno il diritto ed anche il dovere, d’essere gettate in tavola: «tutte le idee, anche le più ridicole, hanno il diritto di venire alla luce». Quando però queste idee sono state lanciate, diventano di dominio comune: devono quindi sottostare alla comune sorte di critiche, di apprezzamenti, d’opposizione, d’adozione o di rifiuto, senza che si tratti di sapere donde vengano. Così, fra poco, quando verrà il momento di passare all’azione, non sarà il caso di affaticarsi di più perchè viene applicata la propria idea: come non si trionferà nella prossima riunione, proclamando «L’avevo detto, io!» se l’idea del vicino ha avuto una brutta riuscita. No, noi non abbiamo parecchi pensieri, ma un unico ed uguale pensiero, ricco del contributo di tutte le menti.

Da noi, al principio, occorsero molte adunanze ben precise, ben regolate, nelle quali ciascuno metteva in comune il suo punto di vista. Poi, con tutta naturalezza, il pensiero diventò sempre più comunitario. Nel corso di giorni e di settimane, a tavola, in ogni incontro, la squadra solleva e risolve le questioni che sorgono. All’inizio di ogni settimana c’è un’adunanza, per prevedere le imminenti eventualità; ma lo spirito lavora in comune, naturalmente… Questa comunanza di squadra conclude persino in strani risultati; ci capita in certi momenti di non poter più pensare da soli; e spontaneamente, quando un laico ci espone una questione importante, chiediamo il tempo di riflettere, con l’intenzione di parlarne ai confratelli. I parrocchiani non si stupiscono affatto, udendo dire dal parroco stesso:
— Ne parlerò ai miei aiutanti.

Che cosa diventa allora l’autorità? Quale parte sostiene il parroco, se deve solo più essere «uno di essi»? Bisognerebbe essere ciechi, per non capire che la sua posizione stessa lo mette al centro dei problemi e fa sì che spesso sia egli il primo a sollevarli. Tocca a lui esprimere il suo concetto, le sue vedute generali, la sua concezione della parrocchia: tutto ciò servirà come linea direttiva, come orientamento generale. Tocca a lui fissare i primi principi, comunicare le scoperte della sua esperienza.

E la saggezza esige che i vicecurati vi si uniscano. E quando la discussione si prolunga e minaccia di diventare eterna, è ancora la sua autorità spesso fondata sulla sua esperienza quella che tronca il dibattito. Non crediate che lo spirito di squadra sopprima l’obbedienza: la presuppone, invece. Il primo nemico della libertà non è l’uguaglianza? ma in luogo di un’obbedienza d’obbligo, di costrizione, è un’obbedienza affatto spontanea, che si rivolge maggiormente alle esigenze del bene comune espresse dal capo che non ad un’autorità che vorrebbe organizzare tutto in virtù della sua volontà personale. Non ci sarebbe, del resto, da ricercare un principio d’obbedienza nella comunità stessa, in modo che il primo costretto a questa obbedienza sarebbe il capo, il quale più d’ogni altro ha il compito di promuovere il bene della comunità, e quindi di sottoporvisi per primo? Così si obbedisce nella gioia, il che è la condizione perchè tutto proceda bene. Non per questo si perde la propria personalità, ma la si mette totalmente al servizio del bene. Adottando, facendo proprie le vedute generali del parroco, i grandi principi del suo apostolato parrocchiale, i collaboratori hanno potuto, all’inizio. fare tacere qualche preferenza particolare. Parecchie strade possono condurre alla stessa mèta: se n’è parlato insieme, i collaboratori hanno cercato di capire il loro parroco e di capirsi fra loro, ed ormai tutte le soluzioni saranno cercate su una medesima linea. Non è detto che, in seguito, il vicecurato diventato parroco non lavori in un senso diverso: è probabile, anzi, che lo faccia, più ricco insieme dell’esperienza acquistata e d’un metodo che corrisponda meglio alla sua natura e alla sua grazia. Ma dopo tutto, la scelta di un metodo o d’un altro è secondaria in rapporto a quel beneficio primordiale, adottato ed applicato da tutti insieme.

Perchè si possa costituire questo pensiero comune, bisogna essenzialmente che ciascuno possa esprimersi completamente, che nessuno nasconda qualche idea, per timore d’essere rimproverato o tacciato d’ingenuità dagli altri. Questione di tatto! Quando c’è un nuovo venuto nella squadra, proprio allora se ne ha maggiormente bisogno. Bisogna considerare che questo nuovo venuto non è al corrente, che sale sul carro in piena corsa: se ci si dimentica di spiegargli la direzione del cammino, di iniziarlo alla velocità di corsa, egli corre il rischio di «perdere i pedali» e di scoraggiarsi. La squadra agirà allora all’opposto del suo programma. Confessiamo umilmente che per poco questo non ci capitò una volta o due. I giovani allora hanno dato l’allarme e uno di noi si è preso l’incarico di rimetterli a galla.

Si permetta anche a questi giovani d’avere le loro idee nuove, idee che non ci si affretterà a dichiararle ingenue, gridando ad alta voce. Si permetta loro anche d’ingannarsi, di sbagliare, e d’essere perentori, battaglieri (è la loro età!) persino nei loro errori. Siamo stati noi pure come essi. Che se, alla loro uscita dal seminario, non concediamo che siano entusiasti e pieni di trasporto per ciò che noi chiamiamo illusioni, pericoliamo di farli diventare assai presto indifferenti e disanimati. Il che non sarebbe un bel risultato.

Pensar insieme è ancora relativamente facile ma che cosa succede sul piano dell’azione? Ciascuno ha pure il suo lavoro…

Sul piano dell’azione, il principio rimane lo stesso: Agire insieme, ciascuno al proprio posto, beninteso, ciascuno con la propria parte ben definita, come abbiamo detto; senza limitazione, però, e senza divisione in scompartimenti. Il problema da risolvere non è che ciascuno faccia strettamente il proprio lavoro e sia poi padrone del suo tempo: è invece che il lavoro venga compiuto.

Principio primo in materia:
— Non si è mai finito il proprio lavoro, quando un altro ha ancora qualche cosa da fare.

È chiaro che noi esaminiamo qui solo i compiti a cui tutti sono interessati: una cerimonia in chiesa, una festa, una campagna da lanciare: ma quanti servizi si possono rendere anche nel campo delle opere! È necessario che ciascuno conosca il lavoro degli altri e che, facendolo in certo qual modo suo, si sforzi di colmare i vuoti, di rimediare alle dimenticanze. Non si tratta di calcolare ciò che si è fatto o non fatto, ma di guardare sempre quel che rimane da compiere. Questo presuppone certamente che si bandiscano le suscettibilità, ed anzitutto la propria. Ah, la suscettibilità… è il nemico numero uno del lavoro in squadra. Come può il capo distribuire le mansioni, come può essere raggiunto il bene comune, se ci si agita facilmente per una mancanza di riguardo a parole, per un’asprezza di modi, per un usurpamento in fatto di prerogative? Come agire abbastanza liberamente al momento d’una festa, come prendere l’iniziativa di riparare la dimenticanza d’un confratello, se ci si deve chiedere che cosa egli ne penserà, se bisogna temere che egli ne sia urtato? Cerchiamo dunque di non essere di quelli che bisogna «prendere coi guanti». L’opera missionaria si farà ben più facilmente, se non cercheremo il nostro buon esito personale, ma unicamente l’avvento del regno di Dio nella parrocchia.

E così pure, in quella vastissima azione che è l’azione parrocchiale, bisogna che ciascuno sia assolutamente deciso ad integrare nel piano comune la specialità di cui è incaricato. Ci saranno spesso sacrifici da accettare per questo: potrà essere mutato da questo fatto tutto l’orientamento di un’opera, d’un movimento: in certi momenti sarà necessario mettere in sordina un’attività, sospendere lo sbocciare di un gruppo particolare, che potrebbe accrescersi a detrimento dell’insieme. Non bisogna dunque soltanto non ricercare la propria riuscita personale, ma si deve accettare che l’opera comune ci imponga talora uno smacco su un punto speciale. Bisogna accettare di arrestare qualche giovane imbarcazione, ed avere per di più il coraggio di rassegnarsi a questa sconfitta, di compiere questo sotto gli occhi di tutti, come se ne fossimo responsabili, senza cercare di alzare la voce o d’insinuare che vi siamo stati costretti, senza lasciar indovinare che si è fatto un sacrificio. Ah, che bella mortificazione è questa, che fa soffrire nel profondo dell’anima, ma che la libera dal proprio «io». 

Come si vede, il lavoro in squadra non sopprime l’obbedienza: l’approfondisce.

Vedo nella vostra sala numerosi grafici: sono te prove di un’altra forma del vostro lavoro in comune?

Sì: essi provano che noi mettiamo a punto, di settimana in settimana, i risultati del nostro lavoro. Dopo l’azione, correggiamo le prove. E voi capite che anche in questo un solo individuo non sarebbe da solo capace. Essa esige il concorso di tutti. Fare squadra, per noi, significa anche fare la critica della nostra azione comune. Questa parola «critica» non deve però farvi pensare che sia un’opera negativa. No: noi registriamo insieme anche il successo e vi attingiamo un motivo di incoraggiamento: ma, anche insieme, tocchiamo col dito le debolezze e gli errori. È molto più facile che quando si è soli. Nella solitudine, si prova talvolta un certo malessere, si ha la sensazione che «c’è qualcosa che non va»; ma non si sa troppo bene perchè e ci si sente impotenti a rimediarvi. Invece in comunità, quando regnano la schiettezza e la cordialità, si capiscono subito i punti deboli. Si è in parecchi a vedere e a sentire, e quindi c’è maggiore probabilità che qualcuno nel numero abbia scorto — o da sè, o udendo certe riflessioni — cose che non vanno. Qui ci serve egregiamente il difetto della nostra povera natura, grazie al quale vediamo più facilmente la festuca nell’occhio del vicino che il trave nel nostro: è evidente che ciò che sfugge ad un confratello trasportato dalla sua azione non sfugge ad un altro, e che un orientamento o una deficienza di cui il parroco non si accorgerebbe, perchè ha troppe cose da vedere contemporaneamente, colpisce invece uno dei vicecurati. Allora è tanto di guadagnato: si può passare tutto al setaccio del giudizio della squadra: i sermoni, i cori parlati, l’organizzazione delle feste, il modo di dirigere la messa, il lavoro in un quartiere, ecc…

Ogni domenica, dopo il pasto, noi ci riuniamo nella sala di comunità: cominciamo col fare il totale delle diverse assistenze, e col tracciare il grafico sui cartelloni appesi ai muri, che da cinque anni ci dicono i nostri progressi e i nostri indietreggiamenti. Li commentiamo. Poi facciamo la critica dei sermoni, sia di quello del parroco come di quelli dei collaboratori: sostanza, forma, opportunità. Tocca poi in seguito a quelli che hanno diretto la preghiera. Potete facilmente capire il vantaggio che ciò presenta per ciascun membro della squadra: invece d’ostinarsi in un vicolo chiuso o d’incrostarsi in un’usanza, c’è la permanente esigenza del meglio, che ci sprona e ci corregge. Si diventa per forza molto esigenti verso sé stessi, poichè gli altri ci aiutano in ciò. E poi… quando le critiche sono fatte così in pubblico, non c’è più motivo di farle dietro le spalle: non credete che sia tutto beneficio per la carità e per la reciproca fiducia? Quale giovane prete, arrivando in una parrocchia, non sarebbe fortunato nel trovare una squadra che gli dica quel che va bene e quel che va male? È già qualche cosa che un confratello, al quale egli lo chiede, s’incaricasse d’avvisarlo; ma può uno solo rendersi conto di tutto un complesso? E del resto, udendo la critica di uno solo, si è così facilmente disposti a credere che s’inganni o che veda male, a mettere in dubbio un giudizio che ci sorprende e ci ferisce. Invece, quando un’intera squadra dice in coro: «È vero: voi non ve ne rendete conto, ma noi la pensiamo tutti così», si è ben costretti ad arrendersi all’evidenza, di fronte a quell’unanimità. E se per caso l’unanimità non è completa, se uno o l’altro mette una sordina, attenuando il giudizio troppo severo, è tutto beneficio anche questo.

Noi portiamo anche tutti insieme alla squadra gli apprezzamenti che abbiamo raccolti sulle labbra dei nostri parrocchiani: non sono i meno utili, perchè è per essi che noi lavoriamo. Se anche non tutti questi apprezzamenti sono da tenersi in conto, quanto ci riescono preziosi, portandoci luci che ci mancherebbero! Senza la squadra, noi non potremmo trarne profitto perchè nessuno oserebbe dire ad un confratello le critiche che ha udite intorno al suo apostolato. La critica in comune è facile; essa si rivolge a tutti, dal momento che siamo tutti solidali nel medesimo lavoro.

Non solo il ministero di ciascuno è passato al setaccio, ma anche il suo tenor di vita e il suo carattere. Ci sia concesso di dire quel che facciamo ogni anno riguardo a questa correzione fraterna. Un’altra squadra di nostra conoscenza lo fa tutte le settimane. Noi al momento del ritiro, in quel momento in cui si è più disposti a ricevere, «giuochiamo ai ritratti». E cioè, ci riuniamo una sera e ciascuno, a turno, mentre l’interessato è uscito, suggerisce qualche cosa che gli si addica: si forma così un ritratto d’insieme, in cui egli, quando gli verrà presentato potrà riconoscere ciò che in lui è da riprendere o da accentuare. All’indomani, iniziando il ritiro, egli saprà su che cosa portare il suo esame, per metà già fatto. Il parroco, naturalmente, non si sottrae alla sentenza: riceve per ultimo il verdetto della squadra e lo registra. Allora ognuno si sente ancor più forte per ripartire per una nuova tappa, così spalleggiato dai compagni di viaggio: poichè si sa benissimo che colui che ha ricevuto un maggior numero di rimproveri non è il meno utile alla squadra. 

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 326-341

Dicevate poco fa che l’apostolato è anche una «ascesi» e il nostro primo mezzo di santificazione. Come intendete ciò?

In primo luogo, per noi, l’apostolato non è un lusso, un’opera di soprappiù, qualche cosa di facoltativo: è la nostra professione, il dovere del nostro stato. Non ci santificheremo dunque senza compierlo, e non lo compiremo in pienezza senza santificarci. Questo dovere di stato, d’altronde, implica grazie di stato che permetteranno di realizzarlo completamente. È però assolutamente necessario aggiungere immediatamente che questo dovere di stato è tutto particolare. Vuol anzitutto essere amato, pensato, voluto appassionatamente: esige da noi tutto ciò che possiamo consacrargli di tempo e di forze: non si presenta come il dovere di stato d’un impiegato o d’un funzionario: non si accontenta d’un certo numero d’ore di presenza; ma è di tutti i momenti e di tutti i luoghi. Deve presentarci dei «problemi», «sia che mangiamo, o che beviamo, o che facciamo qualsiasi altra cosa», secondo ciò che san Paolo dice della ricerca della gloria di Dio. Il progresso del regno di Cristo nella porzione di campo che ci è affidata deve attanagliarci almeno come l’affanno di tutta la famiglia attanaglia una madre, o come la prosperità degli affari preoccupa un commerciante o un industriale. Non è ammissibile che un viaggiatore di commercio sia più tenace, più accanito nel proporci la sua roba da dozzina, di quanto lo sia io, prete, nel portare il nome di Cristo.

Questa preoccupazione permanente non è già, con le sue esigenze, con la sua «urgenza», un ottimo elemento di ascesi?

Chi dice «ascesi» — nel linguaggio degli scrittori spirituali — dice generalmente mortificazione spirituale o fisica.

Giustamente! Il ministero parrocchiale, così fondato sulla preoccupazione della salvezza per mezzo di Cristo, comporta altre esigenze, che possono determinare notevoli e durevoli mortificazioni. E a noi piacerebbe assai che i nostri consiglieri spirituali mettessero contemporaneamente in luce la loro necessità e la loro efficacia.

Il ministero è anzitutto un meraviglioso educatore all’obbedienza. Noi non parliamo qui dell’obbedienza promessa al vescovo nel giorno dell’ordinazione, nè — per i religiosi — dell’obbedienza ai superiori. Parliamo specialmente della sottomissione dell’apostolo al reale, alle contingenze di luoghi e di tempo, che lo condannano ad una perpetua abnegazione.

Come sarebbe a dire, contingenze di luoghi?

Sarebbe a dire che l’apostolo deve sapere di non dover pensare ad essere altrove che nel posto dove si trova, là dove il suo apostolato è voluto da Dio, come si presenta, con le sue difficoltà particolari. Egli non deve dunque lasciare cadere le braccia in atto di scoraggiamento, sospirando: «Ah! non è ciò che avevo sognato…».
— Capirete… — diceva un nostro confratello — Da cinque anni sono in questo cantuccio isolato: comincio ad aver voglia d’avvicinarmi a Parigi.

Ebbene, quel desiderio era un’evasione; e la santificazione di quel prete sarebbe consistita precisamente nell’amare quel cantuccio, nell’attaccarvisi con passione.

Vi sono anche altre esigenze di luoghi: andare a vedere tutto il territorio, sia le parti più povere come quelle più ricche, sia gli angoli più lontani Che i più vicini…

E le esigenze di tempo, che cosa sono?

Semplicissimo: il prete non ha niente da riservare a sé stesso in maniera egoista: si è prevista una distribuzione armoniosa della sua giornata, ma si ricevono visite a tempo e a contrattempo: si è sognata una bella serata tranquilla, ma si accoglie bene il visitatore che viene a turbarla: si è sovraccarichi di fastidi, ma si sa sorridere alla buona notizia che  qualcuno viene a darci, anche se essa non ci riguarda gran che. E sempre così ci si sente costretti, condannati, legati dal dono che si è fatto di sé stessi. Si accetta di mantenersi fedele a quella tale attività nella parrocchia, mentre segretamente si direbbe volentieri che essa non ci piace più. Non si considera il proprio ministero come una bella avventura da tentarsi, un’avventura che ci fornirà magnifiche imprese e fatti notevoli, da raccontare in seguito, o subito, intorno a noi. Non si concepisce la propria missione alla maniera di certe assistenti sociali alla ricerca di «casi» interessanti, ma si ricercano tutti i casi e si giudicano tutti interessanti. Si sa che il ministero è fatto del grigiore delle giornate, d’opere simili fra loro e d’azioni monotone, più che d’azioni appariscenti e brillanti. Non si prende come un’esperienza destinata ad ammaestrarci; ma ci si sottomette, ci si adatta a tutti i dati che si scoprono, a tutti i bisogni che si scorgono.

Non c’è in questo un’obbedienza continua, incessante, un’obbedienza che obbliga il capo della comunità parrocchiale, il parroco, prima d’obbligare i vicecurati e i parrocchiani stessi? Bella concezione dell’obbedienza, quella che la fa derivare dalla necessità e dal bene della comunità, quella che condanna tutti i capricci, tutti gli sbalzi d’umore, tutte le preferenze personali, invece di erigerli a editti indiscutibili per gli altri.

Il ministero è anche un’ottima scuola di disinteresse.

Ricordiamo di aver sentito un giorno una predica fatta da don Godin ad un gruppo della I. O. C.:
— Bisogna amare la I. O. C.? — chiese alle militanti.
E quelle in coro, piene d’entusiasmo:
— Oh, sì! Naturalmente!
— Bisogna amare la propria sezione?
Identica risposta. Ma come rimasero a bocca aperta le giociste, sentendo don Godin dimostrare loro che avevano torto e che le etichette «I. O. C.» e «sezione» non rappresentavano gran cosa, perchè bisognava amare le giovani lavoratrici, la loro anima! Con la sua attitudine a maneggiare le antitesi, don Godin dimostrò che amare la propria sezione è amare sé stessi. E si espresse così:
— Se amo la mia sezione, godrò nel vedere che essa va meglio della sezione vicina, sarò felice se le altre saranno meno brillanti della mia, mi farà piacere che le giovani lavoratrici lascino un’altra sezione per venire nella mia. Se invece amo le anime, mi rattristerò dell’insuccesso della sezione vicina come di quello della mia.

E mentre egli sviluppava il suo pensiero, illustrandolo con fatti, noi pensavamo dal canto nostro che c’era forse un certo gruppo di curati e di direttori d’opere, ai quali si sarebbe dovuto fare la stessa domanda:
— Bisogna amare la propria parrocchia? la propria opera? il proprio gruppo di Figlie di Maria? la propria sezione giocista? il proprio patronato?

Quale distacco presuppone l’atteggiamento che noi auspichiamo! Guardare in primo luogo al bene delle anime, unicamente al bene anime, e di conseguenza non cercare un successo per sè, un regno per sè, e non credere o lasciar credere, da vicino o da lontano, che le anime ci appartengano.

Prendiamo esempi concreti. Amando le anime e non la parrocchia, che m’importa se i fedeli della mia parrocchia se ne vanno alla parrocchia vicina, quando so che essi vi trovano meglio quello che fa per loro? Ci sono altre anime che mi preoccupano assai di più: quelle che non vanno da nessuna parte… Amando le anime e non il mio regno, non rimprovererò ad un militante il fatto di mancare alla tal messa parrocchiale, e tanto meno alla processione della prima domenica del mese, se so che egli si valorizzerà altrove con una giornata di studio o di ritiro… Se amo le anime, e non la mia parrocchia, il giorno in cui il mio territorio si dovrà scindere per una maggiore efficienza, penserò che dopo tutto. con diecimila o ventimila anime di meno a mio carico, le diecimila o le ventimila che mi rimarranno sorpasseranno ancora le mie possibilità.

Si racconta che a Ch…, nel secolo scorso, i due parroci della città stavano facendo innalzare contemporaneamente il campanile della loro chiesa. Ogni mattina salivano entrambi sulle impalcature del loro ‘cantiere, per vedere al disopra dei tetti se l’altro campanile cresceva più in fretta. Le due parrocchie erano al corrente di quella rivalità e la gente non mancava d’appassionarsi con l’interessato, al progresso dell’opera. Accadde persino che, per non essere in ritardo rispetto al confratello, l’arciprete facesse innalzare sulle due torri due belle guglie, senza prendere le sufficienti precauzioni:  e un bel mattino le due guglie furono trovate in istrada. Da allora non vennero più rimesse su.

Quante opere si potrebbero citare, che sono crollate perchè erano frutto di emulazione, più che d’una vera necessità…

Alcuni anni or sono, avevo l’incarico di due patronati di ragazze. Inutile dire che la carità non regnava sempre fra le due opere, almeno da parte di certe direttrici. Avevamo chiesto alle ragazze più anziane dei due patronati d’essere zelatrici dei gruppi di «Crociata eucaristica» della parrocchia: bambine dei due patronati, ragazzi del patronato, scuole parrocchiali, ecc… I gruppi erano numerosi; ma i confratelli mi avevano pregato di fare un’unica riunione per le varie zelatrici. Questo avrebbe fatto guadagnare tempo a tutti, avrebbe dato maggior vita, avrebbe maggiormente arricchito tutte. E del resto, le zelatrici accettarono con entusiasmo… Ma, ahimè!, all’indomani della prima riunione, fui avvicinato dalla buona suora direttrice d’uno dei patronati:
— Come, reverendo, voi riunite le nostre grandi con quelle dell’altro patronato?
— Ma sì, sorella!
— Allora le nostre grandi comunicheranno alle altre tutte le nostre idee, e l’altro patronato trarrà profitto da tutto ciò che noi abbiamo di buono.
— Tanto meglio, sorella: mi sembra che sia per il medesimo Padrone.
Non so se la monaca mi abbia capito. Temo piuttosto che abbia fatto la sua prima preghiera più per il suo regno compromesso che per il regno di Dio da far progredire.

Parleremo delle rivalità di confessionali, di quella specie d’accaparramento delle anime, per il quale ci si appassiona più ad accrescere il proprio dominio spirituale che a partire per la conquista delle anime, delle pecorelle smarrite? Ecco un terreno eminentemente pratico e spirituale, al quale dovrebbero portarci i nostri sforzi di distacco, la formazione, la predicazione che ci sono destinate.

Non si ammetta neppure come un male necessario la divisione delle opere, la stecconata intorno alle attribuzioni di ciascuno. Che importa la nostra influenza, “dummodo Christus annuntietur”, o da Pietro o da Paolo? Non è questo un desiderio nostro proprio: l’ha detto san Paolo, e dopo di lui l’hanno ripetuto molti altri. Si lavori dunque per avere i piedi meno sensibili ai colpettini involontari del confratello un po’ grossolano… o più accorto, più stimato, più abile. Ecco i difetti ai quali dovremmo dare la caccia dentro di noi, preti del ministero parrocchiale, perchè sono quelli che compromettono il lavoro apostolico, quelli che scandalizzano i fedeli e rendono sterili gli sforzi. Poichè parliamo di distacco, ci permettete anche di parlare di povertà?

Attenzione! Il voto di povertà è richiesto solo dai religiosi.

Senza dubbio: ma lo spirito di povertà è richiesto da tutti i cristiani. Non potrebbe esserci una «povertà sacerdotale» che costituisca un ideale per il prete secolare? e la sua pratica non sarebbe una mortificazione più meritoria del digiuno o della disciplina? Non si potrebbe annoverarla legittimamente fra i nostri elementi di ascesi apostolica? … Abbiamo detto che il popolo pensa che la nostra sia una vita borghese, borghesemente insediata; ci ritorneremo sopra solo per ribadire ancor più fortemente che un sistema di vita povera è essenziale per l’apostolato popolare. Certo, questo esige molta abnegazione, ma quale seminarista o giovane sacerdote non accetterebbe con entusiasmo questa prospettiva di povertà, se gli si dimostrasse che è necessaria alla sua azione e che fa parte della sua vita di prete? Disgraziatamente, però, egli trova intorno a sè cento reticenze, cento buone ragioni per invitarlo ad «installarsi», per consigliargli sagge comodità con saggia prudenza… È proprio questa la vera prudenza soprannaturale, o non è piuttosto quella malvagia prudenza della carne di cui parlano i teologi?

E d’altronde, c’è più del semplice distacco dai beni materiali. Il ministero in ambiente operaio esige di più. Abbiamo parlato della cultura, o meglio della mancanza di cultura nella classe operaia, e della distanza che di conseguenza esiste fra essa e noi. Sarà un’altra mortificazione, e non la più piccola, privarsi delle gioie artistiche e letterarie nell’esercizio dell’apostolato. Naturalmente, non intendiamo dire con questo che il prete debba negarsi ore di cultura intellettuale: tutt’altro! Diciamo però che nella pratica dell’apostolato egli sacrificherà i suoi gusti e le sue soddisfazioni estetiche.

Spieghiamoci. Fare il sacrificio della propria cultura significa andare verso i più umili bambini del catechismo con maggior amore che verso i liceisti: significa recarsi dal più semplice dei parrocchiani con la stessa compiacenza con cui si va da chi sa già ragionare, capire e trar profitto: significa accettare di stare tutta una sera, tutta una giornata, in mezzo ai giocisti senza soffrire troppo (od almeno senza darlo a vedere) dei loro modi, dei loro discorsi, del loro vocabolario… Saper sacrificare la propria cultura artistica o letteraria significa ancora non cercare di far condividere i propri gusti, non credere d’aver fatto progredire la causa di Cristo perchè si è fatto gustare un pezzo che ci piace: non scegliere quel pezzo perchè ci piace, non imporre quella certa passeggiata perchè ne abbiamo voglia, ma scegliere ciò che farà del bene.

Questa, sì, è abnegazione! e totale, e proficua: una mortificazione d’ogni istante. Ecco quel che ci colloca nella conformità alla volontà di Dio, sulla linea dei nostri doveri di stato. Non sarebbe un ottimo tema per i nostri esami particolari?

È una forma di povertà che ha molto a che vedere con l’umiltà.

Tutte le virtù si assomigliano in qualche modo: ma poichè parlate dell’umiltà, vi sono molte riflessioni da fare a questo proposito. Anche lì il ministero parrocchiale potrebbe essere un meraviglioso educatore, mentre invece spesso ci deforma.

Nel giorno della nostra ordinazione, abbiamo sentito 1’«oportet praeesse»: all’altare, riceviamo incensazioni: per reazione contro un mondo che attacca e misconosce il nostro sacerdozio, siamo costretti a difenderlo e proclivi ad affermarne la grandezza, per la profonda stima che ne abbiamo. Attenzione! Dal sacerdozio, passiamo spesso alla persona che ne è rivestita: il passaggio dalla nostra dignità alla nostra vanità soddisfatta è troppo facile. Ecco dov’è il pericolo della deformazione. Il rimedio si deve cercare nella preoccupazione apostolica d’entrare in contatto con le anime.

Si sa — e noi l’abbiamo detto — com’è permaloso il popolo riguardo all’accoglienza che gli si riserba, e quale semplicità di comportamento esige da noi. Non ci permette d’essere gran signori. Siccome ignora il valore del nostro sacerdozio, non aspettiamo che cominci con l’onorarlo. Concediamogli quell’ignoranza. La nostra umiltà troverà lì un terreno d’elezione: accettare le incomprensioni, le mancanze di riguardo. non pretendere il primo posto, neppure quando ci è dovuto…

Ad una riunione di militanti d’azione cattolica, un parroco insediato da poco in parrocchia diceva: «Sono io il vostro capo!». Aveva cento volte ragione, il caro confratello, ma non di dirlo con quel tono: non dirlo affatto gli avrebbe assicurato altrettanta autorità e più affetto. Se si sapesse come gli operai ci rimproverano tali affermazioni! Ci prendono per orgogliosi: ecco tutto. Sottomettiamoci allora a queste sconoscenze, accettiamo d’essere disprezzati, facciamoci piccolissimi tra i piccoli: sarà una scuola quotidiana, dove impareremo a mettere meglio in noi la somiglianza del Figliuol di Dio, misconosciuto dagli uomini. La nostra meditazione del mattino potrebbe prepararci a ciò, facendoci contemplare quell’umiltà divina: l’esercizio del ministero, durante tutta la giornata, la affinerà in noi in un modo diversamente profondo dalle considerazioni più elevate e più affettive. Anche lì la vita  può aiutare il nostro progresso spirituale molto più di una spiritualità disincarnata. La nostra anima non è lavorata solo più dai nostri sforzi di volontà, ma da tutte le esigenze della vita. In seminario ci viene predicata l’umiltà. Si prevede allora bene sotto quali forme concrete dovremo esercitarla? Nel giorno dell’ordinazione, dovremo averla finita una volta per sempre con le preoccupazioni di considerazione, di avanzamento, di precedenza, ecc… Tutto questo è bandito in pratica ed anche nel regolamento del seminario? Ci sembra di ricordare che c’era una specie di libro delle diverse cariche e una precedenza dei «dignitari» (non si dovrebbe proscrivere la parola stessa? Vi sono servizi, ma non «dignità»).

Rammento che in seminario si raccontava questo fatterello, accaduto pochi anni prima. Un seminarista del primo anno incontra in un corridoio un anziano del quinto. Distratto, o poco al corrente degli usi e costumi del seminario, tralascia di salutarlo. L’anziano, con un gesto dignitoso, fa volare la berretta del giovane confratello… Questo ci veniva citato come esempio d’una bella lezione data ad un giovane. Ebbene, no! Se io avessi dovuto, come direttore del seminario, sistemare la faccenda, avrei temuto per l’avvenire dell’anziano ed avrei rimproverato quest’ultimo, e molto acerbamente. Lo vedo benissimo incapace, più tardi, di sopportare una mancanza di riguardo: proprio come quel confratello che si ritenne in obbligo di schiaffeggiare un povero simpatizzante giocista, perchè questi non l’aveva chiamato «Reverendo» e gli parlava tenendo in capo il berretto… È forse un peccato che questi giovani non abbiano un maggior senso del rispetto; ma finchè l’impertinenza non si rivolge volontariamente al sacerdozio, sta a noi trovare in essa una preziosa occasione d’umiltà!

Si cita spesso a san Sulpizio la parola di Berrué:
— Signori, dal momento in cui siete sacerdoti, siete arrivati.

Bisognerebbe che fosse un assioma definitivamente ammesso, che non vi sia «avanzamento» desiderato al di là di questa consacrazione. Si direbbe invece che queste meschine preoccupazioni di decorazioni, di onori («al plurale», direbbe Péguy), che sono certamente un appannaggio dell’intera umanità, trovino un terreno scelto nell’ambiente ecclesiastico, poichè da noi, ben stabiliti e ben desiderati, vi sono gli «onori ecclesiastici». Come siamo distanti dal nostro ideale sacerdotale! Come ritorniamo facilmente al fariseismo stigmatizzato da Cristo! Perchè dobbiamo essere così sensibili a questi fronzoli, così suscettibili riguardo ai titoli che ci vengono dati? Quante miserie! Quante bende che ci legano gambe e braccia, ed intralciano la libertà della nostra azione apostolica! Di tutte queste vanità fanno le spese le anime. Si crederebbe, per caso, che i fedeli non se ne accorgono? Del resto, la cosa più grave non è che se ne accorgano, poichè sono i migliori, i più ardenti, i più cristiani, quelli che ne traggono più tristezza che scandalo: la cosa più grave è che ciò sia ammesso e che ci si perda tempo dietro. L’umiltà dovrebbe ancora spingerci ad accettare volentieri i consigli dei parrocchiani, a sollecitare anzi le loro critiche: perchè, in fin dei conti, siamo al loro servizio, ed essi hanno talora sull’efficacia dei nostri metodi luci che noi non abbiamo. Essi vedono e sentono cose che noi non possiamo nè vedere nè sentire: sono testimoni di reazioni che a noi non verranno mai presentate direttamente.

Ci è stato riferito il seguente tratto d’uno dei più grandi prelati di Francia. Egli aveva fatto venire un giovane militante operaio, per sentirlo parlare della sua azione e dei risultati ottenuti. Al termine del colloquio, il Cardinale uscì in questa domanda diretta:
— Ditemi: che cosa si pensa di me nel vostro ambiente? Rispondete con sincerità!
— Ebbene, Eminenza: ieri dicevo ai miei compagni che sarei venuto oggi da voi, ed essi mi hanno detto:
— «Ah! anche quello lì è un borghese come gli altri». («gli altri», sarebbero l’insieme dei cattolici!).
E il buon Cardinale, invece d’offendersi, rispose:
— Caro ragazzo, voglio che tutti i mesi veniate a riferirmi così francamente quel che si pensa.
Non fu questa la vera umiltà, come pure la vera grandezza?

Per il fatto che un laico ci dice che abbiamo torto su questo o quel punto, noi crediamo che la religione sia compromessa. Cerchiamo di non essere come quei farisei del Vangelo, che provavano piacere nel farsi salutare con deferenza e trattare da «rabbi». Molto abbiamo da imparare da coloro che siamo chiamati a guidare: appena entra in linea, la nostra vanità ci impedisce di trarre vantaggio dai loro consigli… È chiaro che nelle nostre parrocchie, specialmente in quelle urbane, troveremo sempre degli adulatori, che lo saranno spesso senza spirito e senza vanità. E noi corriamo il pericolo di prestare loro fede! Quale errore! Ci fu un parroco odiato da tutta la parrocchia (che ne chiedeva con insistenza la sostituzione), il quale il giorno in cui l’Arcivescovado lo trasferì lanciò subito una petizione per essere lasciato nel luogo, e raccolse duemila firme. Come non prendere abbaglio, in queste condizioni? Nulla di strano se, incensato all’altare, incensato altrove a tempo e fuori tempo, il prete fatica a mantenersi nell’umiltà. Fortunati quelli che possono ricevere testimonianze dirette e sincere su quel che da essi si attende, su quel che si disapprova, su quel che si desidera! Ma questo privilegio è riservato a coloro che sanno provocare la fiducia, la confidenza e la schiettezza con la semplicità.

Sapete che cosa vi rimproverano più di tutto e molto spesso i laici? Quel che taluni chiama «la prudenza».

Purtroppo! È sin troppo vero che questa pretesa prudenza è diventata come la virtù ecclesiastica per eccellenza. Quando si parla del tono ecclesiastico, dello stile ecclesiastico, delle maniere ecclesiastiche, si designa la prudenza: un misto di unzione, di riserbo, di riguardi, di abilità. Essa è terribilmente odiosa e ci rende odiosi alla nostra gente, che ha sete di verità, di precisione, di schiettezza. Ascoltatela parlare; ascoltate il miglior padrone mentre parla col suo migliore operaio: lo stile è limpido, chiaro, senza circonlocuzioni. C’è meno unzione, ed una maggiore lealtà.

Questa pretesa prudenza non è una virtù autentica. Nulla ha di comune con la prima virtù cardinale, virtù per eccellenza del capo che dirige il buon combattimento per il trionfo della carità. Noi non saremo mai troppo prudenti di tale prudenza genuina: ma l’altra, la falsa, fa di noi dei pusillanimi dolciastri, degli esiliati nel nostro interno, chiusi in abitudini, poco simpatiche ed inefficaci. I laici vorrebbero che fossimo forti, audaci, capaci di andare avanti.

Capiscono che tocca a noi aprire la strada e che solo noi possiamo farlo senza considerazioni di partito o d’interesse. E ci sarebbero grati se intraprendessimo la buona lotta, se ci compromettessimo quanto fosse necessario. La nostra famosa prudenza è insieme soltanto una paura dello smacco e un amore della nostra tranquillità. Se la respingessimo, conosceremmo certamente qualche sconfitta, ma progrediremmo di più e gli stessi smacchi sarebbero altrettante benedizioni per la nostra umiltà e per la nostra mortificazione. Non raccomandiamo per questo intemperanze di linguaggio o altri scarti di condotta, che abuserebbero della virtù di forza, opponendola alla prudenza; pensiamo però che un certo coraggio, fondato sulla carità e sull’amore del vero, potrebbe utilmente contribuire a liberarci. Anche qui bisogna dare ascolto alle esigenze del ministero. È questo che ci suggerisce le determinazioni da prendere.

Non dovevate parlarci della vita comune in squadra?

Lo faremo ampiamente nel prossimo colloquio. Sappiamo però sin d’ora che siamo chiamati a lavorare in comune, qualunque siano le modalità di questa collaborazione. Ora, questo lavoro in squadra, impostoci più o meno dal ministero, porta in sè una virtù, se vogliamo ricavarne buon profitto per il nostro progresso spirituale.

Non siamo ben sicuri che la formazione e l’addestramento del carattere ottengano nella spiritualità ecclesiastica tutto quel posto che meritano. Si sono visti seminaristi ritardati all’ordinazione o messi persino alla porta perchè avevano fumato, o perchè parlavano troppo durante il tempo di silenzio. Ma si è mai visto qualcuno licenziato per il suo brutto carattere, per il suo fondo d’egoismo, perchè era un compagno insopportabile, suscettibile, arcigno, altero, poco socievole? Eppure, nel ministero, quante volte abbiamo avuto occasione d’incontrare preti considerati ottimi — e che del resto possedevano autentiche qualità — ma il cui lavoro era zero a causa degli sbalzi d’umore! La scelta dei seminaristi, come la loro formazione, si avvantaggerebbe, se ci si preoccupasse maggiormente delle loro «virtù sociali». E in tutti i casi, appena si è nel ministero, l’esercizio di queste virtù sociali è necessario perchè il bene sia compiuto: e siccome non è facile acquistarle, ecco un largo spazio aperto all’ascesi. Lavorare in squadra, fare proprio il pensiero altrui, rinunciare a quello personale, saper mettere in armonia i propri metodi con quelli del vicino, spalleggiarlo invece d’invidiarlo: oh, quante virtù devono entrare in azione per ottenere un tale risultato! Benefica esigenza dell’apostolato, che si può realizzare solo se ci spogliamo di tutto!

L’orazione e le virtù, la vita ascetica e la vita mistica, tutto è dunque — per il prete di parrocchia — condizionato dal ministero parrocchiale. Che cosa gli rimane di proprio? la messa?

Meno di tutto il resto indubbiamente. Ed è meglio così, perchè non vi è ragione alcuna che un elemento qualsiasi della sua vita spirituale resti estraneo alla sua vita apostolica. La messa, che è certamente per il prete la principale fonte della sua vita interiore riceve dalla sua preoccupazione e cura delle anime un nuovo valore santificante. Una messa ben celebrata sia interiormente che esteriormente, ha una considerevole efficacia apostolica. Noi siamo lì in pieno esercizio del nostro ministero sacerdotale, ancor più che quando predichiamo o confessiamo. Rappresentiamo la parte del nostro Gran Sacerdote, del Pontefice: facciamo salire a Dio il sacrificio del popolo e scendere sul popolo le grazie di Dio, “per Ipsum, cum Ipso et in Ipso”. Ora, una spiritualità insufficientemente sacerdotale spinge troppi preti a concepire la loro messa come un atto di devozione privata. La messa non è mai cosa privata: è essenzialmente l’atto della Chiesa, l’atto del Corpo mistico tutto intero, dove il prete associa sé stesso ai fedeli per rendere un omaggio sociale alla Trinità.

Ci è stato riferito un fatto che crederemmo in data della fine del secolo passato, se non ci garantissero che è dello scorso mese. Discorrendo in una riunione decanale, si criticavano molto le messe dialogate, i cori parlati, i cantici francesi; ad un tratto un bravo e degno prete esclamò in tono sentenzioso:
—  Ma ci lascino dire in santa pace le nostre messe!
Lo stesso interlocutore ci raccontava ancora che, avendo organizzato una giornata di Crociata Eucaristica, fu costretto a far assistere i suoi bambini in silenzio alla messa, perchè il signor Arciprete non voleva essere. disturbato nè dalle preghiere ad alta voce, nè dai canti, nè dalle spiegazioni. Ve l’immaginate? Un migliaio di fanciulli radunati per una festa eucaristica e condannati a trasformare la loro messa in una mezz’ora di immobilità, mentre i preti di guardia non la finivano più di sussurrare «zitti! zitti!» e di fare gli occhiacci!… Ed il fatto è proprio autentico!…

Se avessimo questo senso, la presenza del popolo — la sua presenza attiva, la sua partecipazione — diventerebbe per noi una necessità, quando celebriamo. E ci sarebbe in noi un altro bisogno, quello di comunicargli, con una celebrazione perfetta, le ricchezze che teniamo in mano. Una messa ben detta — non solo ritualmente, ma anche religiosamente — una messa che parli al popolo, per mezzo del nostro accento, dei nostri gesti, in comunione con lui, è contemporaneamente (chi non Io vede?) un esercizio di apostolato e un arricchimento di vita interiore.

— Il Signore è con voi, fratelli miei! Fratelli miei, siete voi con me? …

Non è solo la patena, non è solo il calice col vino: sei tu, mio piccolo popolo tutto intero, che io vorrei tenere e sollevare fra le mie mani…

Questa preghiera, che Claudel mette nel cuore del prete all’Offertorio, se fosse l’espressione del nostro cuore sacerdotale, quale risonanza avrebbe nella folla e come modificherebbe il nostro atteggiamento, interno ed esterno! Più di quelle messe celebrate alla meno peggio, mormorate, sbrigate in venti minuti, a danno di chi le celebra e con scandalo di chi le segue: più di quei gesti affrettati che rendono così ridicola la nostra parte sull’altare. Ci vuole una comunità in preghiera, per mezzo nostro, per grazia nostra, in Cristo. E l’anima nostra assumerebbe, ingrandendosi, le dimensioni della cristianità, perchè sarebbe veramente sacerdotale.

Anche qui, specialmente qui, deve esserci una sintesi tra la vita spirituale e l’apostolato, un’intima compenetrazione, un aumento dell’uno per opera dell’altra.

 

Non ci si predichi dunque una spiritualità da «separati». Se dovessimo rimanere suddiaconi per tutta la vita, ci potremmo accontentare di prepararci a recitare l’uffizio e a guardarci dalle tentazioni del mondo: ma dobbiamo essere preti, e preti di parrocchia. Non è possibile che Dio, il quale ci ha scelti per comunicare agli altri la sua vita, con la sua parola e coi suoi sacramenti, abbia permesso un’opposizione reale fra la missione che ci ha affidata e la nostra santificazione. Al contrario, siccome il nostro stato è di per sé stesso santo e ordinato alla santificazione degli altri, sembra normale che santifichi noi stessi, e tanto più in quanto l’eserciteremo con maggior vigore (1).

Si comprende in quale senso vanno i nostri desideri: che cioè nella formazione del seminario e nella nostra autoformazione l’apostolato serva maggiormente da leva per la vita interiore. Se il nostro zelo parte dall’amore di Cristo e delle anime, è una buona, un’ottima passione, una passione bella e preziosa come quella del monaco per lo splendore del culto. Ebbene, questa passione, è potente in molti preti. Non si abbia dunque l’aria di diffidarne, la si sviluppi, ci si appoggi su di essa, se ne faccia una condizione sine qua non d’ammissione agli ordini sacri, se ne tenga conto per l’assegnazione dei posti. Si potrà allora sperare nello sboccio di certe vite sacerdotali, con maggiore sicurezza che giudicando del valore dei preti attraverso la loro «unzione» o attraverso le loro qualità di buoni amministratori.

Sia la nostra spiritualità tutta fondata sulle esigenze del ministero, si studino tali esigenze meglio di quanto non l’abbiamo fatto noi nella fretta di questa opera e si vedrà che non solo non vi è opposizione fra vita spirituale e vita apostolica, ma che esse si postulano e si condizionano reciprocamente.


NOTA

(1) Speriamo d’esserci spiegati chiaramente, in modo che nessuno possa fraintendere il nostro pensiero. Non abbiamo affatto intenzione di sminuire gli esercizi di pietà, e tutto ciò che viene proposto nel seminario maggiore e nei libri di spiritualità. Questi esercizi agiscono come periodi di vigoria nelle nostre giornate tutte dedite all’azione: alcuni di essi ci servono per controllare la nostra generosità o la nostra vita d’unione: così, per esempio, le mortificazioni esterne. Abbiamo semplicemente voluto dire la loro relazione con la nostra vita apostolica, ed insistervi molto.

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 295-310

LA NOSTRA CULTURA

E LA NOSTRA PREDICAZIONE

 

Abbiamo sfiorato il soggetto della predicazione: sarebbe certamente bene che l’approfondissimo un poco.

Sarà facile: facile da dire ciò che bisogna fare e non fare, beninteso, perchè la facilità di adattamento è un’altra cosa… Ecco anzitutto una eco recentissima, che è di casa nostra:

— Ho udito due prediche fatte sullo stesso soggetto da due miei giovani collaboratori formati dal seminario: un affilamento fatto di fresco. Per essere due principianti, se la sono cavata a meraviglia: c’era della vita, una netta preoccupazione d’adattamento; ma purtroppo, si adattavano a ciò che credevano d’indovinare. Prendevano i loro paragoni dalla vita come l’avevano conosciuta. Il tema era: «Il nostro atteggiamento verso Dio Padre. Entrambi si sono creduti in dovere di raffrontare i rapporti con Dio e i rapporti col nostro padre terreno. Uno di essi cominciò a raccontare con grande commozione la morte del suo genitore. L’uditorio pareva avvinto. Ma tutto ciò era d’un altro mondo, aggiustato come un romanzo. E mentre egli parlava, dallo sgabello del celebrante io giravo lo sguardo dagli ascoltatori alle ascoltatrici e mi chiedevo che cosa mai potessero rappresentare quei racconti per i miei giovani operai e per le mie giovani operaie. Egli parlò loro della fierezza del nome, della condiscendenza del padre, del rispetto di cui esso gode nella casa. Com’era lontano dalla realtà quel punto di partenza che voleva appoggiarsi su di essa! … Nella critica che seguì, fece loro osservare che sarebbe stato loro più facile basarsi sulla paternità divina, per dare l’ideale della paternità umana, invece di prendere un raffronto da questa per far capire quella di Dio. Ricordavo, per esempio, che in una delle mie sezioni giociste, neanche una delle mie militanti aveva un padre di cui potesse essere fiera.
Uno aveva detto alla figlia che compiva 21 anni:
— Va’ a guadagnarti la vita sul marciapiede.
Un altro era un beone: un terzo aveva abbandonato la moglie: un altro ancora rendeva quotidianamente insopportabile la vita in casa, sino alle tre di notte. E così via! E i miei bravi preti, con animo tranquillo, volevano dare un’idea di Dio fondandosi sulla grandezza paterna!!… È vero che fra il popolo, e in linea generale, esistono bellissimi sentimenti di amore paterno; ma non sono quelli che i miei giovani predicatori sottolineavano. Essi parlavano secondo la loro educazione, non secondo quella degli uditori.

Suppongo che, da parte dei vostri laici, dobbiate udire riflessioni che vi illuminano sulla portata delle vostre prediche.

Certamente: tanto più che noi le provochiamo, queste riflessioni, per assestare il nostro modo di predicare. Come sarebbe utile curvarsi su queste eco!
Un laico qualunque, interrogato sulla predicazione parrocchiale (ed anche senza essere interrogato, lo sapete benissimo), fa le sue lamentele:

— Piace abbastanza, in generale, sentire qualche sermone; ma i sermoni sono spesso incomprensibili per la massa. Non si commenta sufficientemente il Vangelo: questo sarebbe per molti una rivelazione. Ci sono molte prediche, tuttavia ben preparate, ma in cui non si sente l’anima, il cuore del prete. Non crediate che la gente si aspetti le belle frasi: questo no. Ciò che commuove di più è ciò che esce dal cuore. Noi sentiamo che troppi preti non predicano col cuore come gli Apostoli.
Ed ora, alcune riflessioni di una giovane di 26 anni: è una popolana, ma ben istruita, intelligente, di famiglia non cristiana, convertita da due anni, dopo altre due sorelle:
— Dopo il Vangelo, il prete ci parla di Cristo e della Sua religione. Dovrebbe farlo come lo faceva Cristo stesso, e cioè semplicemente, con parole alla portata di tutti,. e non già cercare frasi complicate che non commuovono l’uditorio. Anche il soggetto deve essere semplice (a meno che l’uditorio non sia di un’intelligenza superiore), e pieno d’amore, di verità. Egli deve scuotere i cuori e le anime, non le intelligenze. Cristo non vuole che la Sua religione sia qualche cosa di tiepido: perciò non bisogna aver paura di scuotere e di sconvolgere quei cuori e quelle anime. E perciò anche non bisogna che il prete — come lo si sente talora — prenda la parola perchè è l’usanza e tratti un soggetto perchè deve farlo. In quel momento, l’uditorio non è affatto commosso: se ne approfitta per soffiarsi il naso, per tossire, e il «discorso» rimane senza effetto. Bisogna che il prete sappia in quel momento che tutta quella folla che ascolta sta a sentire Dio che è in lui e che del resto egli porta la parola di Dio come i primi apostoli, e che tutto ciò che egli dice serve a guadagnare anime a Cristo, il quale ha tanto sofferto per salvarci. Si dovrebbero trattare argomenti dell’unione cristiana, della fraternità dei cristiani, della loro intesa che deve realmente esistere: tutto ciò non ha bisogno di grandi sviluppi, purché sia sincero e sentito…

È troppo facile scartare queste lamentele col rovescio della mano, dicendo che la gente ha lo spirito critico, che non è mai contenta, ecc… Essa è invece più benevola di quanto si creda. Su questo argomento, assai più dei fedeli, hanno lo spirito critico i seminaristi e i preti.

Un seminarista e sua madre ascoltavano un giorno la predica d’un viceparroco, sonnifera ed irritante quanto mai (l’oratore aveva già ripetuto una quarantina di volte, come un ritornello: «E il Papa, che è a Roma…». Uscendo, il seminarista non risparmiò le facezie; e la madre gli rispose:
— Che vuoi? Quel poveretto ha predicato come sa.

No: quando si lamentano, c’è veramente di che.
In realtà, si lagnano poco; anzi, fanno di meglio: non ascoltano. Quelle onde sonore che si rovesciano sul loro capo colano come acqua tiepida: non si sentono più, non si capiscono più. Sono parole della nostra lingua: ciascuno potrebbe comprenderle, ma non ne ha più la forza.
— Il ronzio della predica…
Ma come! Deteniamo la parola da Dio, abbiamo ricevuto la missione di annunciare il Verbo, ci sono stati affidati i Suoi rimproveri, che in bocca agli Apostoli hanno fatto risuonare il mondo («In omnem terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae ver ba eorum») … ed ecco quel che ne facciamo: un chiacchierio distinto, che fa dormire le signore e scappare la gente! Non si rimprovererà certo alla nostra predicazione il suo vigore! II rosa e il grigio sono le sue tinte predilette… Ora esponiamo con freddezza classica una tesi dogmatica, ora ci espandiamo in pie esclamazioni, in cui l’abbondanza degli aggettivi annega il sostantivo e il verbo…

Ci si conceda di citare abbondantemente un laico: (Rivero, «Incarnare il messaggio di Dio» – pag. 7-9)

“Il signor parroco è salito sul pulpito ed ha cominciato a parlare: anzitutto del bilancio parrocchiale, per l’anno scorso. Povero bilancio! purtroppo la fede se ne va e viviamo in tempi tristi. Poi è cominciata la predica, sull’Epifania. Grande mistero: ma com’è semplice! Tre storie, tre figure, i Re Magi guidati dalla stella, le nozze di Canahan, il battesimo in riva al Giordano… Momenti solenni, ma che si lasciano così facilmente vedere e capire nella loro realtà concreta… Ma no: le parole, qui, sono astratte; una stella simbolica guida dei Magi irreali, non c’è più quella piccola festa di nozze di brava gente non molto ricca, quella sponda di fiume fra le canne, dove la voce del Padre risuona improvvisamente: il vino del banchetto non è più vero vino che si beve, ma un vino mistico… Non si tratterà che di sacre estasi, di pie gioie; e sentiremo tutti i vocaboli della tradizionale eloquenza sacra, tutte le parole che lentamente sono uscite dalla vita quotidiana, o vi figurano solo più con un significato quasi vuoto. Il parroco esclama: «O mio amabile Salvatore!»; ma quando Bossuet diceva quell’«amabile», era quella la stessa parola di cui l’innamorato si serviva per colei che aveva scelta: la donna che oggi ascolta il parroco la usa per il portalettere o per il droghiere che le hanno reso un favore… Così si svolge la predica, nelle somme altitudini dove l’umile realtà concreta non potrebbe penetrare. Così segue il suo corso, portato sulle ali d’una pronuncia molto distinta e d’un linguaggio altrettanto elevato, molto al disopra della vita d’ogni giorno, delle immagini e dei pensieri che occupano la mente dei fedeli. Essi, però, hanno piano piano ripreso chi la conversazione a bassa voce con un vicino, chi la semi-sonnolenza attraversata dalle preoccupazioni delle spese giornaliere, chi la meditazione sulle notizie dei giornali. E la verità — presentata in abito da festa, con parole ed accenti riservati alla domenica — a messa finita se ne andrà a finire in un armadio con le vesti che non sono fatte per la vita e per la fatica quotidiana”.

Dov’è l’eloquenza familiare e veemente dei Padri della Chiesa?
— Non si potrebbe più predicare così! I fedeli scapperebbero.
Macchè! E quand’anche taluni si spaventassero d’un linguaggio troppo vero, poco male se fuggono, purché si avvicinino altri che non vengono appunto perchè il nostro linguaggio non sembra loro abbastanza vero.

Vi supplichiamo di riflettere su questo: «noi abbiamo l’abitudine di rivolgerci a gente che crediamo conquistata in anticipo». Di conseguenza, le snoccioliamo frasi già fatte, ripiene di citazioni implicite della Sacra Scrittura, gonfie di parole alle quali la teologia ha dato un senso preciso e che ci soddisfano; e ridiscendiamo dal pulpito avendo, malgrado tutto, la vaga impressione che tutto ciò non ha dato gran frutto, che siamo stati ascoltati distrattamente, che nulla vi sarà di mutato nella vita dei nostri uditori. Ma ne rigettiamo la colpa sul materialismo generale e sull’inattitudine della nostra gente alle bellezze della Rivelazione che noi le predichiamo… Non bisognerebbe anche (e soprattutto) fare il «mea culpa» sul nostro petto? Se salissimo sul pulpito persuasi d’aver a che fare con un pubblico in maggioranza sprovvisto di ogni cultura religiosa, pochissimo istruito, estraneo ai concetti che a noi sono familiari e alle parole che noi usiamo, non cambieremmo forse modo?

Le nostre parole? il popolo le sente sempre, ma non ne ha mai penetrato il senso, e tanto più resta impermeabile ad esso, in quanto non lo cerca più, perchè l’ha sentito mille volte… Le nostre convinzioni? Noi crediamo che esso le condivida e sia d’accordo con noi; ma in realtà esse sono assai vaghe e soggette a tutti gli ondeggiamenti: la gente avrebbe bisogno di imparare tutto, di sentir di nuovo affermare tutto, e con parole nuove, le quali farebbero «colpo» su di essa e la collocherebbe di fronte a realtà che essa non suppone.

Che cosa bisognerebbe fare? porci dinanzi alla gente come dinanzi a quel gruppo di neofiti che essa realmente è, pensando a quelli che potrebbero trovarsi in chiesa per caso e che ignorano tutto. Non sarebbe il mezzo per trovare le parole e l’accento che commuoverebbero tutti?

Un predicatore di ritiri parrocchiali ebbe recentemente nel suo uditorio un amico incredulo, che era venuto ad ascoltarlo per la prima volta. All’uscita dalla predica, questi gli disse:
— Bravo! Tu ti destreggi bene; ma io ti sfido a parlare così ad un uditorio dove fossero 300 persone come me: non ci riusciresti. In fondo, la tua non è malizia, perchè parli a gente già convinta. Se tu avessi a che fare con un pubblico del mio genere, saresti costretto a modificare tutto.

Ci sarebbero senza dubbio risposte da dare a questa osservazione. È evidente che in ogni predica non si può ricominciare dai primissimi elementi: bisogna andare avanti. E in un ritiro parrocchiale, una sera per settimana ci si può permettere di andare al di là dell’elementare. Si può però trarre profitto da questa osservazione; se si pensasse costantemente a coloro che, nell’uditorio, hanno necessità di quelle luci o di quel trasporto che troppo ingenuamente noi supponiamo in tutti, non si modificherebbe forse tutto, ma si modificherebbero molte cose: si vedrebbe più chiaro, più ur­gente, e soprattutto più concretamente, più oggettivamente.

Vane parole lontane dalla vita, formule già pronte, cantici in cui le frasi non possono rappresentare niente, menzogna delle « sacre estasi » promesse a tutti, cose stereotipate, banali, tutto ciò che non è Chiesa, che non è Verità, ma che nondimeno maschera il volto della Chiesa e della Verità: tutto ciò per cui gli uomini hanno perso i! senso della presenza permanente in mezzo ad essi d’un Dio incarnato: ecco quel che, una volta di più, con tutta l’anima dichiariamo di detestare, perchè in questo oblio dell’Incarnazione, in questo cancellamento del viso di Gesù e della Sua presenza, risiede la più profonda miseria del mondo moderno (Rivero 19-20).

È indubbiamente molto difficile essere concreti, non è vero?

Lo credete? Eppure, sarebbe tanto facile, se lo volessimo! Basterebbe pensare che abbiamo a che fare non con «uditori», ma con gente in carne ed ossa, la quale ha una certa vita concreta, una certa conformazione di spirito, certe preoccupazioni. Bisognerebbe tenere presente, quando parliamo della Croce, che vi sono lì esseri che soffrono: quando parliamo della carità, che vi sono lì cuori che amano: quando parliamo di giustizia e di virtù sociali, che c’è lì un popolo provato dal loro tradimento nel mondo moderno: quando parliamo di Dio e del destino, che vi sono lì spiriti oppressi dalla nullità dell’esistenza: quando parliamo di Cristo, della Madonna e dei misteri, che tutto deve avere, ed ha realmente, una corrispondenza nella vita quotidiana di coloro che ci ascoltano.

Spetta a noi trovarla. Esiste una lunghezza d’onda, sulla quale la Verità può giungere alla loro comprensione e può commuoverli. Tutto sta a scoprirla.

Al di fuori di questa lunghezza d’onda, niente da fare! Essi udranno solo un rumore di parole: non riceveranno nulla. Essa si scopre se si sta attenti a cercarla nella trama stessa della loro esistenza quotidiana, e quindi se si vive «col popolo».

Allora noi abbiamo buon giuoco, sì, perchè siamo i soli che diano un significato alla vita, i soli che apportino alla sofferenza un rimedio diverso dalla rassegnazione o dalla rabbia, i soli capaci d’esaltare l’amore come esso lo merita, di dare al lavoro il suo valore totale, di richiamare al sacrificio, al dono di sé stessi, ecc… Questo presuppone però che siamo veramente apostoli, che non ci ascoltiamo parlare, che non predichiamo per liberarci da un faticoso obbligo o per avere la soddisfazione d’esprimere elegantemente frasi ben misurate, oppure di far pompa della nostra scienza. Una preoccupazione fissa del risultato da ottenere, fondata sulla conoscenza reale della vita dei nostri uditori: ecco ciò che può dare la parola giusta ed il tono che convince.

Un piano armoniosamente costruito può rendere servigi; ma in fondo è secondario. Certe fioriture sono bagattelle. E persino la ricerca di certe precisioni dottrinali rappresenta un’inutilità per il nostro pubblico. Noi siamo, purtroppo, meglio formati a trattare l’Incarnazione e la Redenzione che a predicare il messaggio di Cristo. Ma non è impossibile sorpassare questa formazione: e mettendoci a contatto con le esigenze reali dei nostri fedeli (o infedeli) possiamo rapidamente imparare che cosa c’è d’essenziale nell’immenso campo delle verità da dirsi. Bisogna dirigersi verso questo essenziale e sfruttarlo sino in fondo: bisogna sapere quali sono i «luoghi comuni» in corso nell’ambiente popolare, quel che si dice, quel che si ripete, gli «slogan», ciò che traduce le condizioni degli spiriti. Taluni di questi luoghi comuni sono falsi e malefici: errori da correggere. Ve ne sono altri che esprimono più o meno felicemente aspirazioni alla giustizia, alla solidarietà, alla bontà, e via dicendo: punti di inserzione per una predica che risuonerà nei cuori, perchè avrà preso a prestito la strada dei pensieri familiari. Per esempio, come si è potuto predicare dopo la liberazione senza tener conto dello stato degli spiriti, senza utilizzare e trasporre le parole «fascismo», «resistenza», «liberazione», ecc… ? Come non ricavare profitto dai racconti dei reduci di Büchenwald, Ravensbrük e d’altri campi, per far capire ciò che può essere, ciò che forzatamente è un mondo senza Dio? …

Quando siamo chiamati a prendere la parola per un matrimonio (e dovremmo prenderla per tutti i matrimoni della nostra parrocchia), perchè, invece del pasticcetto sedicente dottrinale o delle convenienze mondane, non parliamo semplicemente dell’amore? Abbiamo davanti a noi due giovani cuori, più uniti di quanto lo saranno mai: perchè non fondarci su quell’emozione? Sono convinti di amarsi per tutta la vita: quale bell’occasione per renderli ostili al divorzio! Sono incerti dinanzi all’avvenire: come non suscitare la preghiera che deve sgorgare dal loro cuore? E dietro a questi giovani sposi sono altri giovani, i loro amici, pronti a vibrare ai medesimi pensieri. Noi cercavamo una lunghezza di onda comune: eccola, è l’amore! Ci accontenteremo di leggere un vecchio testo dove si tratta delle «traversie che dovranno affrontare nella vita»?

Parliamo il loro linguaggio e resteremo stupiti nel vedere quanti ne attireremo. Potremo poi chiedere a tutta quella gente di seguire con noi le preghiere, il testo della messa. Tutti specialmente i giovani — pregheranno per gli sposi. E quando, a loro volta, si sposeranno, verranno a «cercare il prete che ha parlato durante il matrimonio del loro compagno».

Che cosa pensate dei «piani di predicazione» che certe parrocchie o certe diocesi stabiliscono per tutto un anno, e magari per un ciclo d’ anni?

È necessario avere ogni anno un piano precedentemente stabilito delle prediche domenicali: ma a noi sembra che assai spesso si commettano errori nella composizione di quel piano. Per esempio, al primo anno si prende il Credo, al secondo i Comandamenti, ecc…. È una cosa magnifica per la logica dello svolgimento e per la soddisfazione della nostra mente; ma troppo facilmente vi si dimentica che tutti i punti del dogma e della morale non sono così necessari ed urgenti per i nostri fedeli.. Vi sono temi che è quasi inutile trattare, mentre altri sono vitali e meritano che vi si calchi su. Ce ne sono anche d’urgenti per un anno e meno urgenti per l’anno seguente.

È quel che ci è apparso nella nostra parrocchia: ecco perchè all’inizio d’ogni anno redigiamo un piano, tenendo conto di ciò che ci sembra urgente, assai più che della logica di un’esposizione generale.

Così il primo anno volevamo lanciare la nostra gente alla conquista: durante il mese d’ottobre le parlammo dell’«apostolato». Constatavamo che i fedeli non capivano niente nella messa: trattammo dunque della messa, evitando il fare scolastico che non li interessava e i punti di diritto che già conoscevano. Poi abbiamo voluto far prendere loro nozione della loro appartenenza alla Chiesa: trattammo questo argomento dal Natale alla Quaresima. E così di seguito, abbiamo cercato i soggetti; o per essere più esatti, abbiamo avuto solo da guardare e da ascoltare, perchè i soggetti si presentassero a noi. Da cinque anni abbiamo così parlato del lavoro, della famiglia, della grazia, dei sacramenti (i principali), del Vangelo (per tutto un anno), della preghiera, della questione sociale, dei punti principali della morale, dell’azione cattolica.

C’erano «delle lacune» nel nostro insegnamento? Naturalmente! E quelli che passano un anno sul pulpito per trattare dell’autenticità dei Vangeli, oppure degli errori gnostici, non lasciano forse lacune nella mente dei loro parrocchiani? E quelli che percorrono a briglia sciolta tutti i capitoli del catechismo, senza lasciarne nemmeno uno?

Persino nell’insegnamento del seminario, non ci sono trattati che vengono dati da studiare durante le vacanze, perchè sono meno importanti? … Che cosa facevano dunque i Padri della Chiesa, sant’Atanasio quando insisteva sull’arianesimo, sant’Agostino quando combatteva il manicheismo e il pelagianismo? Tenevano conto dell’opportunità. E noi — di fronte a questa eresia moderna, la più formidabile di tutte, che si chiama il materialismo o il marxismo — quanto tempo spendiamo per mettere in guardia i nostri fedeli e per dire loro che cosa bisogna pensare? D’altronde, è vero che, in seminario, ci hanno magnificamente insegnato a respingere l’arianesimo o il protestantesimo: non ci hanno però detto granché sulla teoria di Carlo Marx…

Ma quando ci rivolgiamo all’«ambiente parrocchiale» —quello che, purtroppo, abbiamo quasi sempre — c’è bisogno di adattarci così nella forma e nella sostanza?

Anche rivolgendoci all’ambiente parrocchiale, non dovremmo accontentarci delle tiepide omelie che troppo spesso facciamo. Qual è il male proprio di questo ambiente? La sclerosi, il torpore, la soddisfazione di sè, la mancanza di carità, di preoccupazione apostolica, lo spirito di setta, il formalismo. Bisogna sempre tenere presente questo ed il fatto che tali miserie nuocciono alla conquista missionaria: parlare poi di conseguenza, attaccare incessantemente sugli stessi punti, approfittare delle feste liturgiche, degli avvenimenti, ecc., per ampliare gli orizzonti, ridare il senso del prossimo, criticare l’egoismo e la superbia.

Non abbiamo forse tutto il Vangelo per ispirarci in questo senso? I più veementi discorsi di Nostro Signore non sono forse diretti contro le pecche del nostro ambiente parrocchiale? … Si direbbe spesso che abbiamo paura di dir­gli le sue verità. Quante volte raddolciamo la veemenza delle nostre rimostranze, aggiungendo restrizioni oratorie di que­sto tipo: «Naturalmente, fratelli miei, ciò che sto dicendo non è per voi …». Quanti rallegramenti rivolgiamo a quel buon pubblico, che è già sin troppo portato a schiacciare un sonnellino nella sua soddisfatta beatitudine! E quanti ringra­ziamenti (dopo una festa, specialmente)! «Ai nostri cari uomini così fedeli… alle devote signore dell’Associazione, le quali… ai nostri valenti scouts, senza i quali… alle figlie di Maria, che hanno voluto…». Ce n’è per tutti!
Sì, certo, bisogna ogni tanto incoraggiare i fedeli; e noi non difendiamo qui l’invettiva; non crediamo però che sia necessario cullarli con elogi e nutrirli dj. sciocchezze. Troppo spesso trattiamo il nostro pubblico come un bimbo viziato!
— Se il sale diventa insipido, con che cosa saleremo?
— Con lo zucchero — rispondeva ironico Claudel.
Ahimè! Quanto zucchero, nelle nostre prediche! e quante leziosaggini!
— Per chi ci prendono? si domanderebbero gli uomini, se ci fossero.
Ed avrebbero ragione. La gente viene per altro. Anche se si è servito bene, non ci si tiene poi tanto ad essere incensati: «Dite, noi siamo servitori inutili…». Più che di un vano compiacimento per il poco che si è fatto, si ha bisogno di un’esortazione urgente all’immenso che rimane ancora da fare.
Noi non siamo abbastanza virili: non abbiamo una suffi­ciente visione dell’opera da compiere presso i fedeli e per mezzo dei fedeli. Non abbiamo abbastanza la passione delle verità che predichiamo e delle anime a cui predichiamo. Ecco perchè il nostro vocabolario è così povero, così sbiadito. Il modo di rinvigorirlo sarebbe quello d’adattarci costantemente in spirito a  coloro che si trovano lì, di bandire spietatamente — a misura che ci si presentano — le parole che dipendono solo dal folklore ecclesiastico e che nulla dicono alla nostra gente: abolire il convenzionale, il «bell’e fatto», per usare unicamente i vocaboli che hanno per essa un significato.

Che cosa pensate dei sermoni fatti di solito nelle missioni parrocchiali?

Bisognerebbe forse che dicessimo prima quel che pensiamo delle missioni parrocchiali stesse. Noi pensiamo che queste missioni, così come sono praticate per la maggior parte del tempo, non sono più aggiornate: o per lo meno, dovrebbero adattarsi seriamente all’ambiente a cui mirano.

Quel sistema di predicazioni in cui missionari, per alcune settimane o durante una Quaresima, venivano dal di fuori per tentare di smuovere una parrocchia, è stato meravigliosamente concepito e realizzato dai suoi iniziatori: san Vincenzo de’ Paoli, il beato Grignon di Montfort. Esso si addiceva perfettamente al pubblico di quel tempo, che era in realtà formato in maggioranza da gente che aveva una fede ben radicata, ma che aveva rallentato la pratica o la condotta. Che cosa pretendevano i missionari? Risvegliare in quella gente la scintilla assopita sotto la cenere, mettere la sua coscienza di fronte ai doveri e ai pericoli di eterna perdizione: insomma, ricondurre alla vita cristiana gente che non aveva cessato d’essere cristiana. Se già nel secolo scorso e all’inizio di questo c’erano degli increduli parziali e persino degli atei, intorno all’ambiente parrocchiale composto di credenti, tutti erano però preoccupati dai problemi religiosi. Bastava che fosse annunciata una missione, perchè molti si sentissero invitati a venirci, a cominciare il loro esame di coscienza. C’era persino, un po’ dappertutto, della brava gente che aveva abbandonato la pratica religiosa e che trovava nella missione l’occasione attesa di ritornare ai doveri imparati e praticati durante l’infanzia. Questo accade ancor oggi in provincia, nelle regioni di tradizione cristiana.

Nell’ora attuale, questo non si verifica più nei nostri immensi sobborghi e nelle nostre grandi parrocchie dei dintorni. Quando viene annunciata una missione, anche con affissi e circolari, essa tocca solo coloro che lo vogliono, e di solito il cerchio non è molto ampio: son quelli che, o in un modo o nell’altro, giravano già prima intorno alla chiesa. Gli altri, il grosso della massa, non si accorgono neppure che si svolge la missione. Ben altri affissi al muro hanno visti, e ben altri manifestini nella cassetta delle lettere! Quelle riunioni in chiesa non sono fatte per loro. Bisognerebbe andare a portar loro la parola a domicilio, come pure l’invito: e se si vuole radunarli in gran numero, non si scelga la chiesa, ma il caffè o il cinematografo. Se arrivassero così a parlare loro, i missionari dovrebbero modificare i soggetti di predicazione: dovrebbero sapere che 1a pretesa «preoccupazzione religiosa» è un punto di partenza debolissimo: che la logica, come già dicemmo, commuove poco, non più delle «grandi verità», e che il punto d’inserzione della verità va piuttosto cercato nelle preoccupazioni comunitarie attuali…

Insomma, voi non credete affatto nell’opportunità delle missioni parrocchiali?

Esse ci appaiono quali mezzi che il clero parrocchiale ha a propria disposizione per variare ogni tanto il lavoro missionario. Non sono però più, nei nostri ambienti operai, quei grandi rivolgimenti periodici che furono un tempo. Ci sembra che per rivoltare una parrocchia ci vogliono altre cose, e specialmente molto più tempo… Perchè queste squadre missionarie non dovrebbero essere formate contemporaneamente oltre che da preti anche da laici uomini e donne, com’è formata in Italia la Compagnia di San Paolo? Dovrebbero dedicarsi ad una zona non solo per qualche settimana, ma per parecchi mesi, e magari per un anno o due. Si correrebbe meno, questo è vero. Non tutti i punti di una diocesi sarebbero toccati così presto; ma allorché una squadra missionaria lascerebbe un territorio, ci sarebbe un serio lavoro compiuto di fatto. Se non dovunque nello stesso tempo, però l’uno dopo l’altro, nascerebbero nuclei cristiani viventi, fervide comunità. Lo stesso clero parrocchiale, es­sendo stato integrato in quel lavoro di rinnovamento, vi avrebbe preso coraggio e si sentirebbe più aiutato, più cir­condato da un ambiente parrocchiale trasformato, ringiovanito.

In margine a queste riflessioni, ci si può chiedere sé, in­vece di provvedere tutte le parrocchie in modo da garantire loro un prete o alcuni preti, non ci sarebbe un migliore van­taggio lasciando deliberatamente dormire certi angoli, rad­doppiando durante qualche anno il clero di certe parrocchie. Si otterrebbero così terreni seriamente lavorati, coltivati, che servirebbero d’esempio agli altri e finirebbero per trascinarli; mentre invece, volendo attaccare su tutti i fronti, non si pe­netra niente e nemmeno si progredisce.

Non credete che le Congregazioni di missionari e i predicatori di vocazione possano aiutarvi molto in questo lavoro?

Noi crediamo, anzi, che soprattutto a queste Congrega­zioni dovrebbe spettare il grande lavoro missionario. Non sembrano fatte apposta per andare là dove non va il clero parrocchiale, per estendere la sua azione, per andare in cerca delle pecorelle smarrite che esso non può raggiungere? Ah, mio caro Padre! volete permetterci una frecciata? Mentre dovrebbero essere le Congregazioni di missionari ad andare in cerca degli smarriti per ricondurli sotto il vincastro del pastore, abbiamo l’impressione che siano i pastori (parroci e vicecurati) ad andare a raccogliere le pecore. smarrite o no per ricondurle intorno ai pulpiti da cui predicano i missio­nari… Non è forse esattamente quel che dovrebbe accadere. Oh, sappiamo che non è solo colpa loro, perchè le diocesi e le parrocchie li considerano appena come ausiliari chiamati per raddoppiare il lavoro ordinario: e ci sarebbe da parte loro un grave sforzo da compiere per riesaminare la utilizzazione dei religiosi e la divisione del lavoro. Ma rimane il fatto che le Congregazioni non realizzano pienamente lo scopo missionario per cui sono spesso state fondate.

Naturalmente non parliamo qui della mirabile opera svolta sul piano intellettuale da centri di studi come le Edi­zioni del Cervo, Economia ed Umanesimo, o l’Azione Popo­lare. Parliamo del lavoro da farsi in piena massa popolare, e crediamo che i religiosi, come il clero parrocchiale, devono compiere un’evoluzione, adattarsi, per collaborarvi, cia­scuno secondo la propria vocazione.

Mediante questo adattamento, credete all’efficacia della predicazione?

Sì, vi crediamo. E del resto, come potremmo non cre­derci, dal momento che si tratta della Parola di Dio? Pen­siamo però che, affinchè la predicazione sia viva ed efficace in ambiente popolare, bisogna inserirla in un contesto di canti, di inni, di manifestazioni esteriori che l’illustrino. Nulla entra nell’anima popolare se non attraverso il sensi­bile. Le parole, anche le meglio adatte, non bastano a fornire questo sensibile. Bisogna che siano sottolineate, nel corso del ragionamento, da fatti, da esempi (ma da esempi presi dalla vita quotidiana di coloro che sono lì!): e, prima della predica e dopo, da manifestazioni alle quali partecipi il po­polo. Ci siamo abbastanza spiegati su queste manifestazioni, quando trattavamo della liturgia: è inutile tornarvi su.

Con la predicazione, o in qualsiasi altro modo, arrive­remo a penetrare l’anima popolare soltanto a poco a poco. Ma la prima cosa da farsi è rendere libere le strade che vi conducono, cioè spogliarci di tutti gli ingombri portati dalla nostra cultura e dalla nostra formazione borghese.

Per molto tempo andremo a tastoni, indubbiamente, e commetteremo errori: molti di questi ci saranno però rispar­miati, se vivremo la nostra vita sacerdotale in stretto legame con le esigenze del nostro ministero, se sapremo lavorare in squadra coi nostri collaboratori e con tutta la nostra parroc­chia. Ma questo è talmente importante, che bisogna dedicarvi un nuovo colloquio.

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 286-294

Vedete altri impedimenti da abbattere sulle strade che conducono all’anima popolare?

Sì: tutti quelli che noi stessi innalziamo, senza neppur accorgercene, con l’espressione istintiva delle nostre tendenze personali.

L’anima popolare ha affetti ed avversioni, simpatie e diffidenze, suscettibilità. Bisogna conoscerle e non urtarle. Al popolo non piace che «gli si metta la mano sopra»: crede facilmente che lo si disprezzi e che gli si preferisca il borghese: partecipa a certe correnti di idee (specialmente politiche), alle quali — a torto o a ragione — è attaccato come a dogmi da cui dipende la grandezza della classe operaia. Questa suscettibilità deriva indubbiamente dalla sua mancanza di cultura, la quale gli dà un senso d’inferiorità di cui egli soffre. Bisogna tenerne accuratamente conto e non agire con lui come col borghese, al quale la cultura dà un senso di uguaglianza che gli fa sopportare più facilmente che non si pensi come lui, e che fa le debite distinzioni fra il prete e ciò che questi rappresenta.

Il prete non dovrebbe dunque manifestare nessuna preferenza politica?

La parola «politica» ha molti sensi nel linguaggio attuale. Il francese medio vede la politica dovunque: questioni sociali, economiche, patriottiche, professionali, tutto dipende dalla politica. È in parte falso, e spiacevole: ma è così. Là dove noi non vediamo che speculazioni d’idee, o espressioni di dottrine teologiche, si traduce «politica», nel senso militante della parola. Diremo che il prete apostolo dell’ambiente popolare deve astenersi dall’esprimere idee personali su questi problemi? Diremo piuttosto che in queste espressioni non deve mai far pensare al popolo che noi siamo «contro di lui», ma al contrario che siamo «con lui». Per questo, d’altronde, basta stare attenti ai suoi bisogni, alle sue sofferenze, ai suoi richiami a maggior giustizia e dignità, ed anche ai suoi pregiudizi (non per condividerli, ma per capirli e per vedere che cosa c’è dietro di essi).

A me non piacciono i complimenti, di cui diffido: ce n’è però uno che ricordo con gioia. Fu durante la predica della messa di mezzanotte, il primo anno in cui mi trovavo in parrocchia. Mi venne riferito che, mentre predicavo (parlavo dei poveri, mi pare), due astanti non abituati a venire in chiesa, due operai in tuta da lavoro, si bisbigliarono:
— Quello lì è per noi!
Oh, se tutti i nostri parrocchiani potessero pensare e dire altrettanto!

Del resto, qui sono in causa non soltanto le prediche. I discorsi che teniamo in conversazioni private devono essere sorvegliati nello stesso modo, perchè vengono sempre riferiti. Bisogna stare attenti a non dire nulla che possa essere male interpretato e che ci faccia respingere lontano dalle nostre pecore. Possiamo avere tutte le migliori ragioni del mondo di pensare in un modo o in un altro: non avremo tuttavia «ragione» d’esprimere quel pensiero, se esso deve urtare il nostro gregge e nuocere così al nostro ministero.

La nostra parte non è una parte di capi? non vi sembra di sminuirla con l’atteggiamento che preconizzate?

Il Papa e i vescovi sono i capi della comunità cristiana. Noi aspettiamo da essi (e con noi i fedeli) direttive che richiedono l’obbedienza. Noi, per parte nostra, siamo gli apostoli di uomini che non sono cattolici e che noi non dobbiamo comandare, ma guadagnare. Ed anche quando si tratta di coloro che frequentano un poco le nostre chiese, non possiamo disgustarli, assumendo a loro riguardo atteggiamenti autoritari.

Dicevamo dianzi che al popolo non piace che «si metta la mano sopra di lui». Traduciamo: non bisogna tenergli un linguaggio imperativo, parlare da padroni, dettare doveri ex cathedra. Bisogna far amare ciò che si ama: non è la stessa cosa! Bisogna convincere, trascinare. Noi abusiamo alle volte del “tamquam auctoritatem habens”. La Chiesa detiene l’autorità (questo è certo), l’autorità per dire il vero e il bene, il falso e il male. E non si tratta di tradirla adottando mezze misure, patteggiando: ma la si tradisce anche armandosi in suo nome d’una clava che disperde il popolo, le folle. Predichiamo alla massa i suoi doveri, sì, ma non esclusivamente, nè brutalmente, come si presenta un codice civile con sottomano il codice penale. Se si amerà il popolo, lo si capirà e si comprenderà come i suoi doveri siano difficili da compiere, e per quale; strada si potrebbe invitarlo a camminare verso il loro adempimento: si vorrà persuaderlo che il suo «bene» è legato al suo dovere, piuttosto che imporgli la “dura lex, sed lex”. A tale scopo vi sono formalità da prendere: non i guanti, non l’abilità, ma un modo di pensare con lui, di partire dalle sue aspirazioni profonde, di fare appello alla sua generosità piuttosto che alla sua obbedienza. Guéhenno ha assai bene mostrato che la cultura ‘borghese tende a confondere le persone colte con dei «maestri», con dei capi. Noi non siamo capi:
— Voi sapete che coloro i quali hanno fama di comandare le nazioni le governano con impero e che i grandi esercitano il potere su di esse. Ma non così tra voi. Anzi, colui che vorrà divenire grande fra voi sarà il vostro servo: e colui che vorrà essere fra voi il primo, sarà schiavo di tutti — (Marco, X, 42-44).

Noi parliamo a fratelli, ed in nome di Cristo che dice:
— Io non vi chiamo più servi, ma amici.

Se siamo in questa corrente d’idee, tutto il nostro linguaggio e tutto il nostro atteggiamento ne risentiranno.

Guardate coloro che guidano le masse popolari, comunisti o socialisti; non si presentano mai come capi, ma come agitatori, e si curano molto di far volere e di far amare quel che vogliono.

Confessiamo che per il cristianesimo non è essenziale saper far scattare, marciare al passo, obbedire al fischietto, ecc… Ma ecco: la nostra educazione borghese, le nostre abitudini di cultura fanno sì che noialtri preti ci muoviamo più a nostro agio in mezzo alle file ben fatte, ai segni di cortesia: vi troviamo soddisfazioni umane. E a causa di
questa cultura dimentichiamo talora realtà più profonde.

 Quel piccolo giocista che non sa cantare belle canzoni come il suo compagno scout, nè vibrare come lui di fronte alle bellezze della natura, sa meglio di lui i problemi della vita: non dimentica la città per la campagna; non sa organizzare ricreazioni, ma conosce meglio le virtù sociali che lo reclamano e ciò che interessa i suoi compagni. Se alle volte sa meno mettere l’ordine nei suoi pomeriggi di vacanza, è perchè egli si trova meglio al diapason di quelli della sua classe.

Al Congresso della J.O.C. del 1937, mentre assistevamo alla sfilata dei vessilli sulla pista, uno dei capi nazionali dello scoutismo si curvò a dirmi:
— Credete che non sarebbe meglio se camminassero più in ordine?
Io capisco benissimo la reazione di quel giovane capo: a quell’epoca, conoscendo meno il popolo, abbondavo nel senso suo. Non ci sarebbe certo voluto molto più tempo, perchè la sfilata fosse impeccabile. Ma perchè chiedere ad un melo di produrre ciliege? Per ottenere quello stile, ci sarebbe voluto ben altro che una preparazione fisica: si sarebbe dovuto creare in qualche modo un’altra mistica. Questione di accento, di primato dei valori, di temperamento (popolare o borghese): nei mesi di preparazione del Congresso si era pensato a ben altro che alla cadenza e alla marcia al passo. Era qualche cosa d’inferiore? Era un’altra cosa, e senza dubbio superiore, perchè orientata verso valori più alti. Io sono ben certo che la reazione di quel capo scout e la mia di allora sarebbero state e sarebbero ancora quella d’un gran numero di miei confratelli. Ebbene, si veda in ciò un simbolo di quel che noi vogliamo far capire in questo capitolo: «Noi non sentiamo come il popolo».

Riassumendo: voi pensate che, per il fatto della nostra cultura borghese, noi ci lasciamo imborghesire?

Precisamente: e non solo per il fatto della cultura, ma anche per le persone che frequentiamo di preferenza. Noi ci lasciamo sempre accaparrare dagli elementi borghesi della nostra parrocchia, in modo da sembrare che prediligiamo la loro compagnia. È umano! Ricrea riposarsi nella conversazione di persone che hanno le nostre abitudini di pensiero, una buona educazione, maniere affabili, un modo di discorrere che ci induce a parlare liberamente secondo la nostra cultura: ma quale pericolo! Rapidamente, se non si sta in guardia, si limita la propria azione (è ancora un’azione apostolica?) ad un piccolo numero di famiglie, mentre le altre si allontanano da noi. Si prende (o si conserva, si coltiva in sè) la mentalità borghese, lo spirito, i gusti, i pregiudizi (ve ne sono anche lì)  della borghesia. Senza neppure accorgersene, si adottano le sue reazioni. Quando si predica, si pensa a questo ambiente, ci si rivolge ad esso: gli esempi che si citano valgono per esso solo. Ed il popolo capisce che gli siamo estranei, che non gli apparteniamo. Da quel momento è finita ogni influenza reale sopra di lui… E si arriva persino a non più vedere i difetti dell’ambiente che si frequenta. La vernice esterna illude, mentre la rusticità dell’ambiente operaio, la franchezza brutale del popolo ne accusano le deficienze. Volete qualche esempio? Non mancano.

Quand’ero giovane vicecurato, il mio primo parroco (al quale devo tanto per la comprensione del ministero parrocchiale) si compiaceva di raccontarci come, in una parrocchia dov’era stato in precedenza, aveva completamente riformato il gruppo delle Figlie di Maria, mettendovi a capo ragazze della società, per la maggior parte figlie d’ufficiali. Da allora, eran cessate quelle piccinerie, quei bronci che presso le nostre Figlie di Maria provinciali fioriscono con tanta fecondità. Il mio parroco si rallegrava con sé stesso di aver così creato un consiglio più distinto, più comprensivo. Era vero: ma a quell’epoca io ero adolescente ed abitavo nella parrocchia interessata, al momento di quella riforma. Avevo sentito l’altra campana, ero stato testimone delle reazioni dell’ambiente popolare. Il mio parroco scopriva solo il lato buono in quelle «brave ragazze» che aveva poste a capo della sua opera: esse erano educate, compite: davanti a lui sapevano darsi un contegno. Egli non ha mai saputo che, in sua assenza, o per la strada, esse erano superbe, sprezzanti verso le povere compagne popolane: non ha mai immaginato in qual modo il «Consiglio» trattasse dall’alto in basso le piccole che aveva l’incarico di amministrare, nè quale abisso si andasse scavando fra la truppa e i capi. Ma io, che avevo allora potuto giudicare le cose da testimone spassionato, ricordavo tante sorprese, tante sofferenze, anche, e soprattutto tanto scoraggiamento da parte delle altre!

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In una città di provincia un confratello ed io avevamo fatto fondare un sindacato cristiano. Era l’epoca della levata in massa delle Unioni Cattoliche maschili (Castelnau, 1924). A capo dell’Unione della nostra città, i nostri curati avevano messo un assennato Consiglio, composto naturalmente da «signori della società» o da grossi commercianti. Ebbene, una sera in cui assistevo ad una riunione sindacale, ecco che i nostri bravi operai m’interpellarono:
— Reverendo, è proprio una sfortuna: non si è trovato il modo di mettere almeno un operaio e un impiegato nel Consiglio delle Unioni Cattoliche. Capirete che non è per noi… ma in fabbrica i compagni lo sanno e ci canzonano: dicono che serviamo solo per stare di guardia alla porta e per ricevere i rimproveri, se è il caso, mentre quei signori se ne stanno seduti dentro, in poltrona… Che cosa volete che rispondiamo?
Ero piuttosto imbarazzato: quante volte avevo segnalato la cosa al parroco! Feci questa proposta:
— Sentite: fra qualche settimana avrà luogo il vostro Congresso non è vero? Ebbene, come esponete i vostri desideri sul terreno sociale, esponetene uno nel senso che avete accennato ora.
Ed infatti, al mattino del Congresso, sentii esprimere in buona, debita forma, il desiderio che qualche operaio facesse parte dell’U.P.; con estrema delicatezza, il presidente dell’U.P. — invitato al banchetto del Congresso — nominò presidente del sindacato un membro del Consiglio dell’U. P…. Ma dopo una settimana ebbe luogo un Congresso simile nella città episcopale. Quando il segretario volle parlare per proporre la stessa cosa, il cappellano lo fece tacere, in nome dell’autorità diocesana. Figuriamoci il naso dei nostri congressisti! E le proteste?
— Non hanno capito niente delle nostre richieste… Non è per noi, è roba per gli altri… Dopo un fatto simile, non ci sarà più da stupirci che nelle U.P. non ci sia nessun operaio!
Adesso siamo evidentemente ben lontani dalle condizioni di spirito di quegli anni, e i nostri movimenti specializzati ci hanno fatto percorrere molta strada; ma forse non è inutile riferire questo caso, per far vedere come noi siamo spesso tentati di giudicare e di agire dietro punti di vista borghesi.

Noi ci meravigliamo che il popolo confonda la Chiesa con la borghesia; ma mettiamoci al posto di coloro che hanno frequentato i nostri catechismi, le nostre opere. Essi ricordano che al catechismo, accanto al prete, c’erano delle signore, spesso delle gran signore, eleganti come non lo erano la loro mamma e le loro sorelle: signore che parlavano in un modo diverso da quello del loro quartiere. Esse hanno fatto loro recitare il catechismo, ma li hanno anche rimproverati perchè si comportavano male e parlavano volgarmente. Come volete che non associno nella loro memoria il ricordo di quelle signore borghesi con quello del catechismo e del prete? Come non confonderebbero le esortazioni alle belle maniere (non le loro…) e i più gravi principii della morale cristiana?

Più tardi, al patronato, c’erano i confratelli d’opere, tutti quei signori che al giovedì venivano dai collegi e dai licei, e quelle signore e signorine che insegnavano loro girotondi e canzoncine d’un altro mondo, mai niente che somigliasse alla loro vita, a quel che si cantava intorno ad essi. Voluto da voi, o no, tutto questo era per loro un mondo diverso, un mondo che non è il loro: il mondo borghese.

Qualche mese prima della liberazione ci trovammo per caso in un’interessantissima riunione di dirigenti dei centri di gioventù femminile organizzati sin dall’inizio dell’occupazione dal Segretariato Giovanile. Tutte quelle dirigenti erano cattoliche. La loro inquietudine e il loro smarrimento erano enormi; dopo quattro anni di sforzi erano tutte costrette a fare la stessa constatazione: le ragazze che uscivano dai Centri non erano pronte per ritornare alla loro vita, la maggioranza cedeva, e le poche che perseveravano pativano terribilmente del loro ambiente, al punto di disamorarsene… Su tutte le labbra era la stessa antifona, con gli stessi racconti desolanti, con la stessa dichiarazione d’impotenza. Non abbiamo osato dire a quelle signorine tutto il nostro pensiero: sarebbe stato troppo crudele, e del resto inutile. Non potevamo assicurare loro che sapevamo in anticipo ciò che accadeva, e che quattro anni prima — quando i Centri avevano aperto le loro porte — avevamo già la certezza che sarebbero finiti in un ginepraio come quello. Che cosa si voleva infatti fare? Preparare le ragazze dell’ambiente popolare alla loro vita. Si doveva ben pensare che un giorno sarebbe stato necessario restituirle a quell’ambiente, alle condizioni di vita delle loro sorelle maggiori, della loro famiglia, dei loro vicini, e che se anche si facevano uscire di lì per poco tempo, bisognava armarle, affinchè fossero in grado di ritornarci e di «tenersi». La prima condizione per arrivare a ciò sarebbe stata quella che i quadri di quelle case fossero perfettamente al corrente dell’ambiente popolare ed avessero un’abitudine quasi innata delle reazioni operaie. Dopo avere accuratamente studiato quell’ambiente, bisognava studiare gli elementi di una cultura operaia e cercare un metodo di formazione ben adatta. Invece si è preso in blocco, o quasi, un metodo di formazione bell’e fatta. Assistenti sociali. signorine dell’aristocrazia, studentesse si sono messe all’opera con tutte le loro reazioni borghesi ed intellettuali, imponendosi il dovere di formare quelle giovani apprendiste o future operaie, come avrebbero formato le loro sorelline o delle liceiste. Questa abnegazione è ammirevole, ma era votata all’insuccesso.

Meglio di ciò, ricordiamo che all’inizio di questa fondazione, in una delle prime sessioni di formazione di quadri, alcune dirigenti giociste erano presenti e reagivano spontaneamente contro tutto ciò che, con la loro personalità e colla loro vita, capivano inadatto. Esse ci dissero poi:
— Si direbbe che queste assistenti sociali vedano il popolo come al cinematografo.
Ma ecco che, invece di trarre profitto dalle osservazioni di quelle giovani, le dirigenti dei corsi le fecero tacere, dichiarando loro:
— Voi non conoscete la classe operaia!…

È chiaro che, se ci si è forgiata a priori una conoscenza del popolo, se si è tracciato un disegno ben esatto della sua anima, un disegno visto dal gabinetto da lavoro e secondo gli schemi dei trattati di sociologia applicata, è relativamente facile costruire un metodo di pedagogia popolare.

Disgraziatamente, esso riesce solo in teoria: in pratica, fiasco completo!…

Come controprova, potremmo invocare i risultati ben diversi della stessa organizzazione affidata alla I.O.C.; i centri diretti da «Nuove messi» sono riusciti, hanno dato un effettivo rendimento: perchè erano diretti da operaie, che sapevano a che cosa volevano arrivare.

Si deve dunque cercare la soluzione nell’utilizzazione di elementi popolari abbastanza formati per istruire o trascinare i figli della massa?

Sì; ma per questo bisogna anzitutto che ci rendiamo bene conto che il problema esiste, e che, partendo da tale constatazione, cerchiamo di risolverlo. Finchè non ne saremo convinti, faremo delle topiche. La convinzione del popolo che «borghesia» e «religione» siano tutt’uno, è il più forte ostacolo per l’evangelizzazione delle masse. Ora, i nostri atteggiamenti evidentemente incoscienti e derivati dalla nostra formazione, dalle nostre abitudini molto spesso non sono fatti per distruggere questa persuasione.

Ascoltate quel che narra una militante:

Ho visto un giorno giungere insieme in una sagrestia un operaio in tenuta da lavoro ed un signore che, a vederlo, doveva certo, essere un parrocchiano di marca. Entrambi conoscevano lo stesso prete, ed erano venuti a cercarlo. Il sacerdote, senza nemmeno salutare l’operaio (eppure lo conosceva bene!) si mostrò molto complimentoso col signore e lo fece subito entrare nel suo ufficio. In quel momento ho visto l’operaio cambiar colore: tuttavia egli stette più di mezz’ora ad aspettare, e quando fu stufo se ne andò. Io trovo che quel prete ha agito in modo da umiliare l’operaio il quale aveva pur diritto ad un saluto: se si fossero trovati soli, non glielo avrebbe forse fatto? ed allora, perchè questa differenza?… Conosco anche un parroco che accudisce in modo speciale a un gruppetto di I.I.C.: le chiama «le sue borghesucce». Dice spessissimo alle altre che esse non possono essere unite con le giociste, che esse hanno bisogno di molti riguardi. Ebbene, le altre ragazze (sono semplici operaie, ma hanno una buona educazione) ne soffrono molto. Un giorno, alcune delle prime si sono ugualmente avvicinate a certe giociste, e hanno discusso con loro sul modo con cui quel parroco giudica le operaie:
— Ragazze senza istruzione, pochissimo intelligenti; sciocchine, insomma.
Risultato: barriera insuperabile fra il parroco e le operaie sciocchine, che non sono però sciocche come crede lui… Si deve essere stupidi per forza, solo perchè si è operai?

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 270-286

Un ostacolo da sopprimere:

LA NOSTRA CULTURA

Sulle strade che conducono all’anima del popolo, il denaro pare a voi, dunque, come uno dei principali ostacoli da superare. Ne vedete altri?

Sì, uno pure notevole: la nostra cultura.

Ma come? la nostra cultura ci impedirebbe d’arrivare al popolo? sarebbero forse più efficaci gli apostoli ignoranti? Credete che sarebbe preferibile non tentare l’istruzione popolare, contemporaneamente all’evangelizzazione?

Ecco domande che ci gettano nel vivo del dibattito. Il modo stesso con cui le fate, prova che sarà difficile trattare questo problema: gli occhi con cui lo esaminiamo sono stati appunto educati da quella cultura, di cui saremo obbligati a chiedere che si diffidi. Stenteremo a capirci: ma con uno sforzo da ambo le parti ci arriveremo.

Certamente; ma, a priori, io sono tentato di non vedere un ostacolo nella nostra cultura, perchè numerosi apostoli della classe operaia, che sono riusciti nel loro apostolato (p. es. don Godin), ne erano forniti.

La differenza di cultura non ha impedito a don Godin di trovare la strada dell’anima popolare, perchè egli ha saputo sorpassarla, diffidarne, sopprimere quell’ostacolo. Ma ben pochi ci riescono, ed anche quelli che sono considerati i migliori apostoli della classe operaia non hanno tutti vinto la difficoltà. Spesso, in modo latente, essa sussiste ed impedisce un miglior rendimento.

Come esprimete questa difficoltà?

Sapete bene che la formula paternalistica «andare al popolo» ha fatto fiasco. Il popolo non è mai stato nè intaccato nè sedotto dai borghesi di buona volontà che hanno cercato di mettersi alla sua portata «per fargli del bene». Si è potuto creare qualche amicizia, ma senza risultati apostolici apprezzabili, specialmente per lo scuotimento della massa. Perchè? Perchè la maniera abituale di pensare, il modo di comportarsi, di vivere, e l’educazione, erano diversi: non parlavano la stessa lingua, perchè non avevano la stessa cultura.

Francesco Mauriac ha scritto il romanzo «Il fanciullo carico di catene», che senza dubbio conoscete. Esso è una prova crudele di questo smacco. Il movimento giocista è nato appunto dalla convinzione che solo l’operaio cristiano potrà trascinare la massa operaia: apostolato sul simile per opera del simile… Ora, la cultura di noi preti è borghese. Da qualunque ambiente usciamo, i nostri studi di seminario — studi classici, filosofici e teologici ci pongono rapidamente in un altro ambiente che non è precisamente quello borghese, ma che gli è affine. Don Godin, che era stato operaio, raccontava che al ritorno dal seminario, riprendendo contatto con gli antichi compagni, udì da questi una riflessione che lo rattristò, ma di cui si rese conto che era giusta:
— Tu non sei più come noi… non sei più uno di noi.

Ciò non gli impedì d’essere un meraviglioso apostolo della classe operaia, e il suo esempio come tanti altri dimostra che il problema non è insolubile; ma fu a costo di uno sforzo che anche noi dobbiamo compiere, se non vogliamo fare fiasco nell’ambiente popolare. E fu certamente anche perchè don Godin era dotato d’una facoltà di adattamento assai rara… In mancanza di questo sforzo, accade ciò che vediamo di solito nelle nostre parrocchie: la limitazione del nostro apostolato ad un piccolo numero di persone capaci di seguirci e di muoversi nella sfera dove noi stessi ci muoviamo.

Al principio di questi colloqui abbiamo constatato che troppo spesso la parrocchia si riduce ad un «ambiente parrocchiale». Una delle ragioni di quella limitazione è questa: noi ci lasciamo circondare, accerchiare da coloro che, senza essere borghesi propriamente detti, hanno però una certa educazione, una certa vernice, o almeno una certa flessibilità, grazie a cui non si trovano spaesati in nostra compagnia; e noi ci sentiamo con essi in armonia. Con costoro, il lavoro è più facile: essi ci capiscono (o per lo meno fanno finta di capirci, il che è lo stesso): parliamo la stessa lingua. Anche se il loro cristianesimo è pochissimo vivente, ci sentiamo più vicini ad essi; e frequentandoli, il carattere borghese della nostra cultura si accentua ancor più, ci assimiliamo ad essi. Niente da stupirsi, dunque, se l’opinione popolare ci assimila ugualmente a costoro e ci considera con lo stesso occhio: l’occhio con cui essa guarda chi si trova «dall’altra parte della barricata». Cosicché, più andiamo avanti, meno conosciamo nel suo profondo questo popolo che ci è affidato, e meno siamo adatti a parlargli, a sedurlo. Noi supponiamo costantemente come acquisite nozioni che esso non possiede, principii che per noi vanno da sè, mentre sono agli antipodi del suo pensiero corrente.

L’ambiente popolare è dunque così estraneo, così impermeabile alla nostra cultura?

Ecco che dite bene: alla «nostra» cultura. Sì, potete essere sicuri che l’ambiente popolare è completamente sprovvisto di ciò che, in stile borghese, noi chiamiamo la «nostra cultura». Non diciamo che esso non vi sia adatto (sarebbe una questione da discutere, che comporterebbe molte distinzioni e sottigliezze, e che ci condurrebbe fuori dal nostro argomento): diciamo che non l’ha, ed anche che ne diffida. È un fatto di cui bisogna tenere conto.

Sottolineeremo solo qualche differenza fondamentale. L’uomo colto ragiona sulle sue azioni: al minimo, si fa una piccola filosofia dell’esistenza con l’aiuto di qualche principio ammesso dalla sua intelligenza. Il mondo popolare agisce per trasporto. e il sentimento rappresenta la parte principale. Il mondo popolare delle nostre grandi città attuali si comporta sulla base di certi aforismi materialistici che rappresentano per lui la «saggezza» (p. es.: «non bisogna lasciarsi scappare l’occasione buona» … «ci sono pochi momenti buoni nella vita: sarebbe da stupidi lasciarseli scappare, quando si presentano» … ecc…); materialistici ed anche rivoluzionari, che si riassumono abbastanza bene così: «bisogna difendersi». Il tipo ideale è colui «che si difende bene». Vi sono genitori che rimproverano il figlio che è stato troppo buono in classe o che non ha reso pugni per pugni. Il supremo disonore è quello d’essere stato uno «zuccone», ecc…

L’uomo colto si picca di spirito critico, si compiace di discutere ciò che sente o ciò che legge: proibisce a sé stesso di «pensare come tutti». Invece il mondo popolare pensa collettivamente: l’opinione del gran numero è la sua, ed esso agisce di conseguenza.

Si dice «rispetto umano»: talora è vero, ma sarebbe più giusto dire «assenza di idee personali, assenza di principii». Donde deriva una conformità ai modi di pensare del suo ambiente, sia che si tratti di quello di lavoro o di quello di divertimento o di quello politico. Esso adotta l’opinione media, anonima, che viene da chissà dove e che si esprime con frasi fatte. Pensa con chi gli sta intorno: l’adulto specialmente come i compagni di lavoro, il giovane come i compagni di divertimento. La sua personalità non è accusata e si sdoppia facilmente; ma esso non se ne rende conto e crede volentieri d’avere un pensiero suo proprio. Lo prova questa riflessione di un operaio, a proposito del quotidiano che leggeva abitualmente:
— Straordinario, questo giornale! La pensa sempre come me.

L’uomo colto fonda i suoi giudizi su certi assoluti che gli servono da criteri. Nel mondo popolare, tutto è questione d’opinione, anche la morale. «A ciascuno le proprie idee…» è la formula più corrente. D’altra parte, le idee non hanno valore: si fa come si può, o come si vuole.
— Siamo liberi, non è vero?

Questo istinto di libertà viene in parte dal temperamento rivoluzionario, ma soprattutto dalla morale che si è ricavata dall’insegnamento della scuola laica. Essa non aveva nessun fondamento universale, i maestri si sono contraddetti, hanno. contraddetto la famiglia o il catechismo. Ne è rimasta quell’idea confusa che tutto è vero o falso secondo il punto di vista da cui ci si colloca, e che infine «sono tutte storie». Alla radio, i professori di morale sono stati Saint-Granier e Clément Vautel: il «menefreghismo» integrale. Ciò che dirige dunque non è una verità oggettiva, di cui si ha cura, ma l’interesse immediato, quello del corpo in particolare. Se cambia l’interesse, tutto cambia, anche l’apprezzamento del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Solo il relativismo è un assoluto. E questo si verifica anche nei cristiani praticanti. Si vede già di qui l’importanza di creare correnti d’opinioni, di lanciare «luoghi comuni» benèfici, invece di attardarsi ad esporre tesi che non toccano nessuno.

Credete realmente che l’operaio sia incapace di pensare personalmente?

Ricordate che da principio abbiamo detto che alcuni ne sono capaci, una volta che si ritrovano in famiglia. Non sono necessariamente i più evoluti, ma quelli che sono ancora prossimi al buon senso contadino, quelli che non hanno completamente subito l’influsso della grande città, o quelli meglio dotati di spirito critico. Questi, in casa loro, riflettono, rievocano i ricordi, pensano all’educazione ricevuta, all’atavismo. Ridiventano sé stessi, col loro buon senso personale. Per fare la conquista individuale, con l’aiuto della quale si potrà poi fare per mezzo di essi la penetrazione nell’opinione collettiva, possiamo dunque raggiungerli più utilmente nella famiglia: non esclusivamente, è vero, ma in condizioni più favorevoli che da qualsiasi altra parte.

Con questi, almeno, la nostra cultura non sarà un ostacolo!

Ma sì, anche con questi! Sia che li incontriamo in casa nostra o in casa loro o in chiesa se ci vengono dobbiamo ancora diffidare della nostra cultura: oppure, se preferite, della nostra formazione. delle nostre abitudini. Altrimenti, presentiamo loro una religione estranea, che non va giù, proprio come un cibo che l’organismo non può sopportare: lo s’assorbe, ma non lo si può digerire.

Da dove proviene la difficoltà?

La nostra prima tentazione deriva dalla nostra formazione teologica. Bisognava ben farla, questa teologia! Anzitutto per penetrare noi stessi il più addentro possibile nei misteri divini, affinchè la luce della ragione che ci è stata data da Dio non sia scioccamente disprezzata da noi e ci serva a raggiungerlo secondo tutto l’animo nostro. E anche per essere in grado di esporre le divine verità, con saggezza, alle menti avide di spiegazioni. Avremmo anche dovuto farla così bene da essere capaci di servircene senza accorgercene… La dottrina dovrebbe essere in noi, incorporarsi nel nostro pensiero, in maniera che noi la comunicassimo come nostro proprio pensiero, con parole comuni, quasi senza farlo apposta. Invece la comunichiamo con forma scolastica, più vicina al manuale che alla vita; ed essa non interessa la nostra gente, per la quale solo la vita ha interesse.

Ora, il cristianesimo non è una «saggezza» (cfr. S. Paolo): è spirito e vita. Non rendiamolo troppo intellettuale, non facciamo tesi, non allontaniamoci contemporaneamente dal nostro gregge e dal Vangelo. Il Vangelo è più prossimo alla nostra gente che alla teologia. Certo, bisogna dare la dottrina: non crediamo che basti accontentarsi di predicare la morale! ma bisogna dare una dottrina vivente, una dottrina che serva alla vita, ed alla vita di coloro che vogliamo raggiungere. Quando abbiamo fatto una bella chiacchierata ben ordinata, ben costrutta, e la nostra gente l’ha ascoltata, siamo soddisfatti e troviamo che ciò vale più di quel circolo di studio dove ciascuno ha detto la sua parola, non sempre giustissima. Ebbene, la verità è entrata ben più addentro nella mente di chi ha detto quella parola — prova di una scoperta personale in rapporto con la vita — che non in quella di chi ha ascoltato per un’ora.

E del resto, come si può dare un insegnamento ben squadrato in un’ora per settimana? Invece il metodo d’inchiesta su problemi della vita, fondato su esempi vissuti: la discussione fatta di tutte le reazioni personali: quella specie di direzione collettiva in cui il prete ha la magnifica parte di sottomettere gli interessi particolari al bene generale e di eliminare ogni egoismo: ecco ciò che è assai più formatore per i nostri operai! Questo li afferra per intero: e non vi sfuggono. Una esposizione — anche la più convincente — resta per essi sul piano intellettuale: la maggioranza non vi prende interesse, e quelli che si interessano non sono profondamente trasformati.

Una giocista, presidente della sua sezione, che era stata a lungo fedele al patronato della sua parrocchia, venne un giorno da noi tutta agitata, protestando con forza:
— Ah! è una cosa detestabile: con la vostra J.O.C non ci si potrà più sposare.
— Ma perchè?
— Eh, sì! Prima, ci si sarebbe maritate con un uomo qualunque: adesso invece si vuole solo più un buon cristiano, e per strada non se ne incontrano. Lo dicevamo ieri fra compagne, ed eravamo tutte seccate.
— Eppure, non è solo da oggi che siete cristiane: al patronato non vi parlavano forse del matrimonio?
— Oh, sì! ma al patronato parla il prete, mentre alla J.O.C. parliamo noi. E dopo aver fatto l’inchiesta che si fa da due anni «sulla preparazione della giovane lavoratrice al matrimonio», non si può più volere che un militante… Capirete che non è divertente!…

Ci rendiamo conto di tutta la convinzione espressa in quest’ultima frase? «Non è divertente»! Esserne convinti al punto da preoccuparsene: ma non si potrà passare oltre. Evidentemente, le nostre giociste nei due anni dell’inchiesta sulla preparazione al matrimonio non hanno studiato in modo didattico la loro religione e il sacramento; ma tutta la loro vita ne è stata trasformata.

In una delle parrocchie dove sono passato come vicecurato, ho conosciuto due patronati di ragazze: identico reclutamento, identico ambiente, formazione totalmente diversa. Nel primo, le ragazze erano molto istruite in fatto di religione: quasi tutte facevano gli esami d’istruzione religiosa dell’Arcivescovado. Sin dal primo circolo di studio che volli fare, rimasi stupito di quel che esse sapevano e capii di dover totalmente cambiare il mio piano di riunioni dell’annata. Ammirai quella scienza e me ne rallegrai per l’avvenire… Nel secondo patronato, c’era assai meno istruzione religiosa propriamente detta. Pochissime ragazze erano promosse agli esami e quasi tutte si fermavano dopo il secondo anno. Ma la formazione morale era più continua, più vicina alla vita. Dapprima rimasi un po’ deluso: quelle ragazze sembravano più civettuole… La pietà sembrava la stessa nei due patronati. Ma a dieci anni di distanza mi è possibile giudicare gli alberi dai frutti. Se prendo l’insieme di quelle ragazze che si sono sposate, devo confessare che quelle del primo patronato non hanno perseverato, sposandosi con leggerezza. Tutte (le altre hanno invece formato vere famiglie cristiane. Non mi si faccia dire ciò che non dico: naturalmente non pretendo che l’istruzione religiosa sia stata un ostacolo alla perseveranza; ma credo di poter dire che non è stata un mezzo sufficiente. A sentire certi uomini di dottrina, si potrebbe credere che la maggiore mancanza è quella di un insegnamento a base di «nozioni». Essi giudicano con la loro cultura teologica. Quel che manca, è di saper entrare nella vita, per trasformare la vita. Il nostro abituale insegnamento dogmatico non penetra, non trasforma, perchè chi ascolta non è intellettuale. Quell’esempio dei due patronati mi ha profondamente impressionato: e devo soggiungere che tutti i confronti che ho potuto stabilire fra le C.E. d’insegnamento e le C.E. giociste hanno corroborato quell’impressione.

Vi sono però dei casi in cui dobbiamo procedere col sistema dell’insegnamento e fare vere e proprie «esposizioni».

Certo: lasciamo però la scolastica, parliamo come Cristo. Quel predicatore inglese che sul pulpito apre il giornale legge un fatto vario e parte di lì per innalzare l’uditorio ad una concezione cristiana della vita, scandalizzerebbe senza dubbio il nostro ambiente parrocchiale sino dai primi approcci; eppure, si servirebbe d’un punto di partenza migliore di quello scelto da quel cappellano militare che noi abbiamo udito cominciare così una sua predica:
— Fratelli, Iddio è dovunque, con la Sua essenza, con la Sua presenza e con la Sua potenza. Anzitutto con la Sua essenza, perchè… ecc…

Nostro Signore non era forse più vicino al primo che al secondo?

— Avrete sentito parlare di quelle diciotto persone sulle quali è caduta a Siloe una torre, uccidendole… (Luca, XIII, 4).
— Quando cade la sera, voi dite che domani farà bel tempo, perchè il cielo è rosso… — (Matteo. XIV, 2).

E via di seguito. Gesù parlava il loro linguaggio, perchè era uno di essi. È stato certamente l’uomo colto per eccellenza, perchè più d’ogni altro si è collocato nel mondo, ha giudicato, ha dominato gli esseri e le cose. Ora, quel che vogliamo imparare, se intendiamo formare, è giudicare, dominare la vita, chi ci sta intorno. Bisogna dunque prendere questa vita come si presenta ai nostri ascoltatori. Cristo ha avuto bisogno di fare appello solo alle nozioni della vita corrente, per formare i suoi apostoli e per predicare il Vangelo.

Non si tratta di mettere in mostra la propria scienza, ma d’agganciare e di trascinare. La dogmatica non aggancia: anche le «grandi verità» commuovono poco: se partiamo dall’assoluto, la nostra gente ci lascia partire soli. Essa è invece sensibile a tutto ciò che è vitale. Le persone colte si interesseranno a sentir spiegare che la messa è un sacrificio, in quale senso, ecc…: vi troveranno anche un alimento per la loro pietà. I nostri fedeli saranno assai più conquistati se diremo loro semplicemente che essa continua il sacrificio della Croce; che Gesù sia vivente nell’ostia l’interessa più che sapere in qual modo vi si trova. Così per la grazia, per la comunione dei santi, ecc… Tutti i dogmi possono così essere insegnati, ma sotto un aspetto vitale, non sotto un aspetto nozionale, che non entra nelle loro categorie e che non lascia in essi nessun ricordo.

D’altronde, l’argomentazione apologetica ha poca presa sulla nostra gente, perchè essa non crede alla dialettica. Di discussioni ne ha sentite troppe! Incapace di cogliere il lato forte e il lato debole di un argomento, capisce di non potervi rispondere, perchè si è più «furbi» di essa (differenza di cultura); ma questo non la scuote affatto. Se sapessimo sorpassare la nostra cultura e tenere per noi la teologia, arriveremmo alla nostra gente assai più facilmente con l’ardore della nostra convinzione. Forse che ascoltandoci si formerà in tal modo? Come dicevamo dianzi, è gente più di azione che di riflessione: bisogna tenerne conto e formarla con l’azione. Una gran parte della nostra brava gente non è capace d’una pratica sostenuta della religione, e a più forte ragione d’una religione troppo interiore. Bisogna farla agire, farla pregare con tutto il suo essere, con le membra, col cuore e specialmente con lo spirito. Un’esperienza come il Grande Ritorno di Nostra Signora di Boulogne ne è un esempio sorprendente.

Offrire anche alle più indifferenti popolazioni dei nostri paesi una occasione eccezionale di manifestazioni esteriori è una idea molto popolare, molto adatta alla psicologia delle masse. Far allestire gli archi di trionfo (di cui le donne intrecciano le ghirlande e gli uomini piantano i pali e i rami), mettersi in corteo a piedi nudi, scortare la Madonna, vegliare davanti a Lei: ecco una forma di pietà che piace al popolo ben più che partecipare a formule di preghiere incomprensibili per lui. Gettare insieme acclamazioni: ecco un modo popolare di svegliare e di far pregare quest’anima comune della folla. Così si spiega, per esempio, lo stupefacente successo delle «ostensioni» nella diocesi di Limoges, dove tutto il popolo — comunisti e cattolici — va in visibilio.

La nostra gente non è capace d’una vita religiosa sostenuta, perchè la religione che le viene messa davanti si rivolge troppo all’intelletto e non abbastanza all’azione. Un operaio, al quale avevamo chiesto un rendiconto per il bollettino del patronato, ci diceva un giorno:
— Ah! io preferisco tenere in mano un martello, piuttosto che una penna.

Noi ricordiamo d’aver fatto studiare per tutto un inverno il Pater Noster ad uomini dell’ambiente popolare: non però facendoli sedere ad un tavolo per prendere appunti, ma cercando e componendo con essi un giuoco scenico, in cui tentavano d’esprimere le loro scoperte d’ogni genere… C’è tanta brava gente, alla quale possiamo chiedere un servigio materiale, che talora la compromette agli occhi dei compagni, e che è felice di rendercelo: non accetterebbe invece di seguire esercizi regolari del nostro culto parrocchiale. Bisogna prenderla com’è: dal momento che può e che accetta, facciamola pregare agendo.

Ma così non si pericola di cadere in una specie di religione materiale?

È verissimo che bisogna stare in guardia da un certo «materialismo» della religione: materialismo di cui vediamo esempi sorprendenti nelle pratiche quasi. superstiziose che godono il favore di tante persone. Portare addosso medaglie, bruciare un cero, fare una offerta a santa Teresa o a Sant’Antonio da Padova, insomma fare o dare qualche cosa, è alla loro portata e nel loro piano di vita. Quanti soldati si caricavano di medagliette, senza però pensare a pregare!… Fu questa la causa che l’anno scorso, da noi, diede tanto successo al passaggio della Madonna di casa in casa: ci furono intere strade dove nessuna famiglia la rifiutò. Qualcuna, purtroppo, si giustificava dicendo di non voler interrompere la catena… C’è dunque un pericolo reale, che noi non vogliamo misconoscere; ma questo non significa che dobbiamo rinunciare ad una sana utilizzazione del sensibile, del materiale. La Chiesa lo fa coi suoi sacramenti e coi suoi sacramentali: ha ragione, perchè noi siamo spirito e corpo, e andiamo a Dio come siamo, come Egli ci ha creati, attraverso il sensibile, utilizzando i nostri sensi. Gli errori che constatiamo, le deviazioni che possiamo temere ci obbligano semplicemente a non provocare atti esteriori senza spiegarli, senza orientarli verso il loro fine spirituale. Essi non devono essere per noi un mezzo di raggiungere e di toccare le anime. Possono però esserlo, ed abbondante­mente, e noi avremmo un gran torto se, per evitare il pericolo or ora segnalato, ci rincantucciassimo in uno spiritualismo o in un intellettualismo disincarnato.

Dobbiamo anche guardarci dalla nostra cultura letteraria?

A più forte ragione! La felice scelta delle parole, le antitesi che colpiscono, l’armoniosa cadenza delle frasi, la finezza di un’allusione, tutto ciò che attrae le persone istruite e dà a chi parla la piacevole impressione d’essere gustato dai raffinati, sono cose che sfuggono all’ambiente popolare. Quando ci dilunghiamo in esse, perdiamo tempo e manchiamo allo scopo. Bisogna essere diretti e presentare Cristo in maniera più spoglia: i nostri ornamenti lo sfigurano. Anche qui dobbiamo accostarci al Vangelo e dimenticare la nostra formazione greco-latina. È più difficile che non si creda.

E così pure, questo sforzo che noi tentiamo talora per far accedere il popolo alla bellezza religiosa per mezzo della bellezza letteraria od artistica, è proprio apostolico?

Condannereste forse i saggi d’arte religiosa popolare di queste ultime decadi?

No davvero, nel principio. C’è un teatro cristiano, ci sono poemi cristiani, una musica religiosa, un’arte religiosa dell’immagine, della vetrata, ecc… È bello che gli ambienti popolari vi siano iniziati da fedeli che ne riconoscano la vocazione, e che altri si sforzino di pensare e di creare un’arte più propriamente popolare. Per questa strada indiretta, certe anime possono essere elevate a Dio: in tutti i casi, bisogna che le nostre chiese creino un’atmosfera di vera bellezza. Bisognerebbe inoltre vedere se coloro che, nei cenacoli, pretendono di comporre opere popolari trovano proprio la vera strada. Quante volte abbiamo visto la nostra gente sbadigliare di noia durante certe commedie che autori cosiddetti specializzati avevano composto per il pubblico popolare! Quante volte abbiamo visto i nostri giovani, o certi padri di famiglia pieni di buon senso, beffarsi di ciò che veniva loro presentato! Gli artisti, i borghesi, gli studenti, nella sala e all’uscita, erano pieni di ammirazione:
— Ecco la restaurazione del teatro popolare!

E la nostra gente si dava nel gomito, dicendo:
— Ma per chi ci prendono?

Abbiamo veduto una sala popolare vuotarsi letteral­mente, perchè il prete, per sua soddisfazione personale, faceva ostinatamente passare solo commedie di un certo cenacolo, a base di misteri detti «popolari».

Siamo sicuri che queste osservazioni daranno luogo a tutte le classiche discussioni sull’«arte per il popolo». Quanto a noi, vogliamo semplicemente far notare che si arrischia di prendere un granchio enorme, se si pensa di fare dell’apostolato con mezzi estetici che il popolo non capisce.

Bisogna poi intendersi bene sull’arte moderna nelle nostre chiese. Il popolo — i giovani soprattutto — esigono roba moderna. È però necessario dargli qualche cosa d’intelligibile, e specialmente di sensibile. C’è un «moderno» che non si digerirà mai, perchè è incomprensibile, convenzionale, troppo geometrico, troppo schematico: prova d’una fantasia ingenua, che si profonde in cose cosiddette «per fanciulli». Si crede di fare cose «popolari», perchè si fanno cose «ingenue». Ma «ingenuo» non significa «semplice», che in letteratura vuol dire «chiaro», ben spiegato, e che in arte rappresenta ciò che parla con immediatezza e si lascia capire senza bisogno di rompersi la testa.

Mi pare che voi parlavate anche della nostra educazione come d’un ostacolo alla penetrazione nell’ambiente popolare. Forse che la buona educazione dovrebbe nuocere al nostro apostolato?

La buona educazione, no; ma la nostra formazione borghese in tema d’educazione, sì. Più ancora della nostra cultura, sono borghesi le nostre maniere: o più esattamente, sono «ecclesiastiche», con tutto ciò che questo epiteto comporta d’unzione, di dignità un po’ solenne, di comportamento untuoso ed insinuante, talvolta pontificante: strano miscuglio d’autorità, di «prudenza», di benevolenza condiscendente, di timidezza, di «bei modi», che forma il tipo caratteristico, l’ecclesiastico (tipo così caratteristico, che certe astute ditte specializzano qualche loro rappresentante, per trattare con la clientela ecclesiastica), al punto che c’è chi dice, d’un laico e d’un soldato:
— Ha la faccia da prete.

È inevitabile? Certo che no, perchè alcuni di noi vi sfuggono e si può dire di essi (e non necessariamente in un senso cattivo):
— Non è un curato come gli altri… E un tipo chic!

Ad ogni modo, non bisogna dissimulare che questa nostra maniera di fare ci pone in una casta separata, dove ci riesce assai difficile renderci graditi alla gente del popolo. Da noi, essa non si trova a casa sua: la nostra compagnia la disorienta ed essa non desidera restarvi a lungo, perchè si sente goffa, impacciata. Che cosa possiamo farci? Non si tratta naturalmente di prendere un comportamento «popolare» nel peggior senso della parola. Bisognerebbe però abbandonare la nostra «dignità» borghese, per arrivare ad un’altra dignità, quella — semplice, senza cerimoniosità, accogliente — degli operai che si rispettano. Anche il popolo ha la sua gentilezza, se pur non è quella borghese. Non importa che un operaio ci parli col cappello in testa e la sigaretta in bocca: bisognerebbe che non solo non glielo facessimo sentire, ma non lo sentissimo nemmeno noi. Non confondiamo la «distinzione» borghese con la delicatezza, fiore della carità. Potrà, per esempio, non essere distinto chiamare qualcuno da una parte all’altra della strada; eppure ciò potrà essere una gentilezza molto apprezzata. Al contrario, non è necessario dare manata sulle spalle d’un operaio, o chiamarlo «amico mio» per conquistare la sua simpatia. A Péguy non piaceva essere trattato «alla popolana», ed aveva ragione. Ma questo atteggiamento è una cosa, e la semplicità è un’altra. Bisognerebbe che rinunciassimo a «pontificare», che non ci preoccupassimo più dei riguardi che ci sono dovuti…

Saper stringere con energia una mano, fare un pezzo di strada con chi si è raggiunto lungo il cammino, fermarsi per scambiare due parole, portare un pacco, spingere un carretto: ecco la cortesia popolare. L’apostolo della classe operaia, se vuole «farsi tutto a tutti per conquistare tutti», deve adottarla come sua. E non eccezionalmente, come uno scout fa la sua B. A., ma in modo che la sua pratica l’identifichi all’ambiente e che l’ambiente lo adotti per suo. Questo non è discendere, fallire. Certi grandi apostoli della nostra epoca (don Bosco, don Fouque a Marsiglia, Padre Anizan nel quartiere di Charonne, Padre Chevrier a Lione) sono stati gli «uomini popolari» del loro quartiere, della loro città. Non erano «ecclesiastici», ma uomini di Dio ed insieme uomini del popolo. Del resto, san Paolo definisce così il prete:
— Preso in mezzo agli uomini e costituito a beneficio degli uomini, in ciò che riguarda il servizio del Signore (Ebr., V, 1-2).

Ecco le riflessioni d’un militante:
— I preti vorrebbero far penetrare Cristo nella massa operaia: ma la maggior parte dei preti non ha il cuore operaio, e disgraziatamente alcuni di essi non amano gli operai. Non hanno capito: non c’è da stupirsene, perchè quasi tutti ignorano che cosa sia «guadagnarsi la vita», in una fatica spesso dura, oltre all’incomprensione dei capi che considerano l’operaio come una macchina. E molti preti pretendono, con prediche più o meno ben fatte, di far entrare Cristo nell’anima di questi uomini! Io dico piuttosto che la nuova generazione dei preti giovani dovrebbe viverne la vita per un certo periodo di tirocinio: dopo, non avrebbero più bisogno di introdursi a forza in un cuore operaio. Capirebbero meglio la vita di Cristo operaio.

Questa esigenza può sembrare eccessiva. Eppure voi non ignorate che nell’ora attuale parecchi esperimenti in questo senso sono tentati da preti che per un certo tempo si fanno letteralmente «operai con l’operaio». Chissà se quegli esperimenti non potrebbero essere generalizzati per coloro che vogliano specializzarsi nell’apostolato della massa?

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 256-268

Ma come fare, per spazzar via questo ostacolo? Le opere non vivono d’aria. In realtà i preti soffrono in linea generale, per essere costretti a tendere sempre la mano; non per sè, però: il loro bilancio è disastroso. Dove troverebbero denaro, se non lo chiedessero ai fedeli?

Siamo d’accordo: la difficoltà è grande e richiede una risposta in parecchi tempi.

Anzitutto un’osservazione preliminare, che ripetiamo instancabilmente a proposito di tutto: non pretendiamo di risolvere qualche cosa, ma presentiamo un problema. Se vi diciamo come la nostra squadra esamina la soluzione per la nostra parrocchia, non è per proporci come modelli, come esemplari più abili degli altri. Non siamo che fratelli in mezzo ad altri fratelli, preoccupati delle medesime questioni. Trovare la soluzione è opera di tutti i nostri fratelli nel sacerdozio e noi sappiamo che molti vi si applicano, non solo in teoria, ma anche in pratica e con successo. Mentre stiamo finendo questo capitolo, riceviamo la visita di don Remillieux, il famoso parroco di Nostra Signora Sant’Albano, nei dintorni di Lione, il quale da venticinque anni ha totalmente eliminato la questione di denaro dal campo dove devono solo trionfare la preghiera e la parola di Dio. Ciascuno conosce le esperienze di Mons. Chevrot, parroco di San Francesco Saverio, in questo campo. In molte diocesi si sono prese interessanti decisioni relativamente alle questue, alle sedie, alle «classi», ecc….

La nostra ambizione è dunque solo quella di portare un contributo a questa impresa. che è insieme di demolizione e di costruzione: bisogna demolire ciò che ingombra la strada, affinchè possiamo costruire col popolo la Città di Dio.

In secondo luogo, non dimenticate che nei nostri colloqui noi abbiamo sempre in vista la parrocchia popolare, posta in mezzo a gente pagana infarcita di pregiudizi anticlericali ed accessibile ai fatti assai più che alle discussioni e alle spiegazioni. Conveniamo volentieri che in una parrocchia di cristianità, dove tutti sono d’accordo sulla base, la funzione antiapostolica del denaro è minima.

Del resto, anche lì certe indelicatezze di forma urtano profondamente i buoni cristiani, e possono generare pericolose reazioni negli altri. Senza contare che la cosiddetta parrocchia «di cristianità», nell’ora attuale, specialmente nelle città, comporta un elemento popolare che non bisogna dimenticare. Senza poi contare che il modo d’agire di una parrocchia influisce sull’opinione pubblica in generale, e che noi siamo tutti solidali gli uni con gli altri. Quando un parroco dei dintorni avrà superata la questione del denaro in casa sua, non avrà concluso niente, se dovrà incontrare l’obbiezione:
— Sì, ma… voi siete un’eccezione: guardate ciò che succede altrove…

In ogni caso, nelle nostre parrocchie «di missione» il problema è così grave, che non bisogna esitare a riesaminare gli altri nelle prospettive che esso offre.

Sì, va bene: ma… ritorniamo alle vostre opere: come le vorreste sostenere?

Ecco, è proprio forse su questo punto che ci sarebbe modo di cercare una soluzione che riduca le spese, mentre le nostre opere, così come sono condotte, fanno penetrare ancor più l’obbiezione nel cervello della gente. Ricordate ciò che abbiamo detto, le nostre riserve riguardo alle opere, la nostra preferenza per l’apostolato diretto. Le difficoltà che in questo momento esaminiamo parlando del denaro ci fanno abbondare nel medesimo senso. Le nostre opere costano molto; come dicevamo, il loro risultato missionario è scarso; ma per di più esse ci fanno passare per uomini danarosi, il che rovina in parte questo risultato… Il bilancio d’un apostolato diretto, come noi l’abbiamo abbozzato, si equilibrerebbe con molto meno denaro: i doni spontanei (o richiesti a qualche persona più agiata) basterebbero, senza bisogno d’un continuo «appello al popolo», o di ingegnose trovate per riempire la cassa. Certo, c’è sempre necessità di fondi; l’organizzazione delle nostre cerimonie e feste popolari in chiesa, la carta che stampiamo in abbondanza per raggiungere gli infedeli, sono spese onerose. Ma è meno oneroso delle costruzioni e degli arredamenti di sale parrocchiali, dei giuochi, delle passeggiate, ecc… Quanto denaro inghiottito notoriamente in quegli edifici dove l’opera di Dio non progredisce affatto! Certi curati sembrano affetti da una vera «malattia della pietra»: da una parrocchia all’altra, passano la vita a costruire: e quindi a fare prediche di carità, lotterie, banchi di beneficenza, e via di seguito. Al termine della loro vita, avranno maneggiato molto denaro, edificato solide costruzioni (che la persecuzione seguente ruberà ai loro successori): ma quante anime? Si fa costruire e ci si inorgoglisce di farlo in «pietra da màcine», di fare «cose definitive», quando le opere per cui si realizzano quei locali sono così fluttuanti, e le sale così spesso chiamate a mutare destinazione. Si vuole possedere (per esempio un locale di colonia estiva, che serve al massimo tre mesi dell’anno), quando partiti politici o società filantropiche si accontentano d’affittare gli edifici di cui si servono, salvo a sloggiare ogni tanto.

Quando si tratta di costruire una chiesa e di adattarla nel miglior modo ad una liturgia vivente, non si perde il tempo. Ma per il resto? Iddio non ci perde, invece di guadagnarci? Uscendo da una visita, durante la quale il parroco gli aveva mostrato con fierezza le belle sale che aveva appena ultimate, un sacerdote malizioso gli disse:
— Insomma, non resta più che da riempirle.
— Eh, sì. — rispose ingenuamente il curato. Non resta più che da riempirle.

Ma con che cosa? Egli faceva ormai la figura d’un proprietario ben sistemato: era in condizione favorevole per trascinare le masse? Non aveva per lo meno invertito l’ordine dei fattori?

La pratica della povertà evangelica, con ciò che essa comporta d’incertezza per il domani e di rimessa nella Provvidenza, non dovrebbe avere la sua parte nelle nostre realizzazioni di apostolato?

Ma una buona parte del denaro che il clero domanda va ai poveri e ai loro figli. Esso dà largamente: elemosine, dispensari, colonie estive, ecc… Il denaro che scivola fra le sue mani va ai bisognosi; questo è visibile! Almeno lì non gli si può rimproverare nulla.

Esatto! Noi diamo abbondantemente e con facilità: non facciamo indagini, non esigiamo documenti, come negli uffici municipali. Ma siamo sicuri che questa liberalità non si rivolti talora, nel cervello del popolo, contro i suoi autori?

Istintivamente — l’abbiamo già notato — il popolo crede che dietro quei doni vi sia un’inesauribile fonte di denaro, una misteriosa impresa bancaria che ci sovvenziona per scopi di dominio sociale. I doni e i soccorsi ci attirano meno simpatia di quanto crediamo. Siamo in un’epoca in cui la carità è «istituzionale». Municipio, associazioni, società filantropiche, partiti politici fanno a gara a chi avrà le più belle opere di mutuo soccorso. Il popolo capisce che lo si vuole comperare: approfitta di tutto ciò che gli viene offerto da ogni parte, ma sta in guardia. Così si comporta verso le nostre opere cattoliche di carità, con diffidenza ancor più viva. Per esempio, noi iscriviamo il tale bambino alla nostra colonia estiva, distribuiamo giocattoli a Natale: non illudiamoci però di attirare con ciò qualche simpatia per i «benefici della religione», nè di determinare un pubblico riconoscimento della carità cristiana. Che figura fanno i nostri poveri balocchi da dieci lire al pezzo, di fronte alla sontuosa scatola offerta in municipio o in fabbrica? E soprattutto rendiamoci conto che assai spesso, venendo a far iscrivere il figlio alla colonia, o venendo al nostro dispensario, i genitori hanno l’impressione di usarci una cortesia, di compromettersi con la chiesa… e d’aver diritto alla nostra riconoscenza.

Mi risuona ancora all’orecchio la riflessione d’una mamma, il cui figlio era stato assunto nella L.O.C. Eravamo nel 1943, al momento in cui i bombardamenti della zona di Parigi facevano sì che i genitori desiderassero allontanare i figli. La L.O.C. si era messa in cerca di famiglie della L.A.C. disposte ad accogliere bambini delle famiglie operaie.
Noi preti godevamo di quel bel gesto di carità cristiana e ci «rallegravamo» in anticipo del bene che esso avrebbe potuto fare alla nostra gente. Disgraziatamente (ancora il clericalismo!) volemmo andare troppo in fretta ed organizzare noi stessi, per mezzo della nostra assistente sociale, quel servizio di evacuazione. Sarebbe certo stato più complicato — ma più vero, più efficace dal punto di vista missionario — lasciare che i militanti locisti agissero da sè: sarebbero andati dai loro vicini, avrebbero parlato dei loro amici cristiani di campagna che si offrivano d’ospitare qualche bambino: sarebbe davvero stato un esempio di carità personale. Invece vi fu un’organizzazione che s’incaricò amministrativamente della cosa. Ed ecco il risultato: in ottobre, la mamma di cui sopra volle che suo figlio ritornasse; venne da me, e siccome il ritorno era andato un po’ per le lunghe, mi disse:
— Io voglio, sì, affidare il mio bambino alla società; ma almeno questa società faccia le cose sino in fondo!
Dov’era il beneficio cercato e fatto per l’ideale cristiano?

Come concludete questa requisitoria? Pretendete di sopprimere le questue, le classi, le spese di cancelleria, i soccorsi ai bisognosi?

Noi non pretendiamo niente: non siamo l’amministrazione ecclesiastica, non abbiamo una veduta di insieme su tutti i casi che possono presentarsi. Constatiamo in primo luogo, e vorremmo far comprendere come noi lo comprendiamo, che è questo un problema importantissimo, che tutti devono esaminare. E se ci sarà concesso di suggerire e di augurare qualche cosa, diremo:

  1. Parliamo meno di denaro dalla cattedra della verità. I nostri fedeli ci saranno grati, se ci estenderemo meno sui nostri bisogni per dare loro un po’ più di dottrina: debitamente avvisati che non vogliamo importunarli con frequenti appelli, risponderanno generosamente ad un breve invito come ad un interminabile discorso.
  2. Non diamo mai l’impressione d’essere interessati, di dare al denaro un valore esagerato, come se contassimo sul denaro per far progredire il regno di Dio: ed ancor meno l’impressione che consideriamo più il ricco che il povero, che lo riceviamo meglio, che gli usiamo maggiori riguardi.
  3. Se lo possiamo, sopprimiamo la locazione ed il pagamento delle sedie. Anche in una parrocchia borghese come San Francesco Saverio a Parigi, questa soppressione ha potuto aver luogo senza danno, per favorire il raccoglimento del culto: a più forte ragione da noi, nelle nostre parrocchie popolari, dovrebbe avere buon esito l’argomento apostolico di cui abbiamo parlato. Al Sacro Cuore di Colombes, noi non abbiamo nessun posto dato in affitto, e curiamo molto che siano evitate le questue nei giorni di grande affluenza: Ognissanti, Natale, Domenica delle Palme, Pasqua. Per non dover percepire il pagamento delle sedie in quei giorni, ecco che cosa abbiamo proposto ai nostri parrocchiani:
    — Abbiamo calcolato che voi pagate quindici lire all’anno per le seggiole: per evitarlo di chiedervelo ogni domenica, il denaro verrà raccolto tre volte all’anno, all’uscita dalle messe domenicali. Siete invitati a dare allora cinque lire per persona.

    Scegliamo sempre, per annunciare e per fare tale questua, due domeniche consecutive in cui vi siano solo i frequentatori abituali della messa, senza cioè nessuna festa speciale. Naturalmente non si fa mai questione di sedie o di questua nelle cerimonie serali, perchè il nostro principio è che si può fare appello alla comunità cristiana per sovvenire alle spese del culto, ma che non bisogna mai invitarvi quelli di fuori.
  4. Riduciamo il più possibile le questue. Noi ne facciamo solo una, al Credo, e breve: mai fuori dalla messa. Ci sembra che non si dovrebbe approfittare di tutte le funzioni religiose per tirar fuori il piattello. La questua deve chiaramente apparire una partecipazione dei fedeli all’offertorio: realizzata così, si deve mantenere, perchè fa parte della liturgia. Anche qui è interessante l’esempio di San Francesco Saverio, dove il denaro viene raccolto dagl’incaricati che passano all’estremità dei banchi e portano all’altare le offerte così riunite. Se ci si preoccupa che questo procedimento debba nuocere alle nostre opere, si abbia un po’ più di fiducia nella Provvidenza. Ci fu riferito che un parroco, avendo udito per radio il racconto dell’esperienza di San Francesco Saverio, disse con aria niente affatto convinta:
    — Credete a me: nulla vale di più della questua fatta dal curato stesso, e con un piattello.
    E siccome gli fu fatto osservare che una questua così rapida, fatta da giovani, aveva il vantaggio di non disturbare a lungo i fedeli, e che se anche la raccolta era meno abbondante era almeno più apostolica, ribatté:
    — Ma allora che sarà di noi?
    Ci permetta quel parroco di rispondergli coi seguenti fatti. Non vorremmo passare per illuminati: ma è proprio necessario invocare il miracolo, credendo nella Provvidenza? È forse un tentare Iddio il rimettere a Lui la cura di ristabilire l’equilibrio in un bilancio di cui compromettiamo l’equilibrio per il bene delle anime?
    Cinque anni or sono, sino dalla prima Comunione solenne che celebrammo nella parrocchia, ci venne l’idea di non chiedere niente ai genitori, nè per i posti, nè per il cero, nè per l’offerta. Preoccupati però d’una misura che poteva essere troppo ardita e che minacciava di compromettere seriamente il nostro bilancio, ci sentimmo portati a chiedere a Dio una risposta diretta; Gli dicemmo perciò con tutta semplicità:
    — Signore, se il nostro progetto Vi piace, ce lo dimostrerete facendo sì che troviamo in una cassetta delle elemosine un’offerta insolita.
    Pochi giorni dopo, il sagrestano incaricato di raccogliere il denaro delle cassette, venne a dirci stupefatto:
    — Guardate che cosa ho trovato nella cassetta della Madonna!
    Era un biglietto da mille. E non basta: Iddio completò la Sua risposta, già abbastanza eloquente, facendoci arrivare un’altra offerta insolita, esattamente corrispondente al deficit derivato nella cassa parrocchiale dalla «mancanza di guadagno» che ci eravamo imposta.
    Da allora, ogni anno, all’epoca della Comunione solenne, la Provvidenza ci fa giungere in un modo o in un altro la sua quota. Un anno, ad esempio, morì una povera vecchia, che viveva del sussidio della Mutua: pochi giorni dopo (eravamo prossimi alla grande cerimonia) sua figlia venne a portarci una busta chiusa.
    — Mia madre ha lasciato questo per la parrocchia.
    Con nostra grande sorpresa, trovammo 6000 lire!…
    E l’hanno dopo, sempre nella stessa epoca, ecco un’altra busta misteriosa: altre 6000 lire e due righe:
    — Avevo promesso questa offerta all’epoca dello sfollamento: non so perchè ho atteso tre anni prima di darvela.
    E così ogni anno: ed il fatto è tanto più strano, in quanto che non siamo abituati a tanta grandiosa liberalità.
  5. Auguriamo con tutto il cuore l’abolizione delle  classi» a pagamento nei matrimoni e nei funerali. Nulla possiamo fare in merito, nè noi nè i curati che ci leggeranno: sentiamo però con gioia la notizia che queste questioni sono allo studio presso le competenti autorità. Quel che possiamo fare, e che facciamo, si è anzitutto di dimostrare apertamente col nostro atteggiamento a chi viene da noi prima d’un matrimonio o d’una sepoltura che ciò che ci interessa e che deve interessare lui è il sacramento che egli riceverà o le preghiere con cui bisogna circondare il suo defunto, non il denaro. Cerchiamo d’entrare in comunione d’anima con la gioia o col dolore di chi ci visita e di bandire ogni spirito amministrativo. Ciò che possiamo fare, e che facciamo, si è di attenuare il più possibile le differenze, trattando con eguale onore e con una liturgia così religiosamente celebrata sia i ricchi che i poveri. Dal momento in cui si ottiene una comunità in preghiera — come spiegammo parlando della liturgia le apparenze esteriori spariscono in gran parte agli occhi degli astanti.La signorina M. I. è una giocista che ha lottato per parecchi anni a favore della penetrazione del cristianesimo nell’ambiente operaio parigino. Appartiene ad una parrocchia popolare, di cui segue le funzioni con la regolarità concessale dal suo apostolato. Alla vigilia d’entrare in un monastero di contemplative (dopo averci detto mille volte: «Quel che temo di più nella vita religiosa è d’essere sicura che non mi mancherà più nulla, mentre la mia famiglia si troverà forse nelle strettezze»), ci scrive:
    — La gente del popolo è profondamente urtata dal prezzo elevato delle cerimonie e dalle differenze di classe. Mi sembra difficile sopprimere queste ultime, ma non si dovrebbero rialzare le classi inferiori con un po’ più di solennità? celebrare, per esempio, la messa per tutti i casi, per i ricchi e per i poveri? Ci potrebbe essere maggiore o minore apparato, ma sarebbe almeno salvaguardato l’essenziale, segnando così l’importanza della funzione che si fa. Si tratti di matrimonio o di funerale, per un ricco o per un povero, vi è la stessa grandezza in sè… Bisogna approfittare delle cerimonie come matrimoni, sepolture. battesimi, per essere molto vicini alla gente, non per agire come funzionari. Abbiamo già detto che il nostro ideale sarebbe di poter misurare la solennità esteriore delle nostre cerimonie non con le sostanze degli interessati, ma con la loro qualità cristiana, circondando di speciale splendore il matrimonio e il funerale dei nostri migliori militanti e riducendone al minimo l’apparato quando si tratta di gente che non viene mai in chiesa. Non è, del resto, lo spirito del Diritto Canonico?
  6. Infine — come dicemmo parlando delle opere — ci sembra che il clero farebbe bene a scaricare su laici cristiani le opere di carità, sotto tutte le loro forme.

Io penso che la povertà del clero stesso sia abbastanza manifesta per avere un valore apostolico.

La povertà personale del clero deve infatti essere una testimonianza in favore del Vangelo da lui predicato: una testimonianza ancor più parlante della nostra castità (di cui non è possibile dare la prova), una testimonianza che Cristo è per noi tutto e che tutto abbiamo lasciato per seguirlo. Sappiamo che questa testimonianza viene data da una moltitudine di preti che, in campagna specialmente, vivono quasi nella miseria. Non è universale: non la diamo a sufficienza, senza dubbio perchè dimentichiamo il suo valore. Non siamo ricchi, è vero, ma se un operaio viene nel nostro ufficio o nel nostro salotto, giudica ricchi i nostri mobili. Bisognerebbe che si sentisse presso di noi come in casa propria, che non fosse intimidito o sconcertato dalle comodità del luogo dove viviamo. Non siamo ricchi, ma abbiamo un tipo di vita comoda.

Durante le manovre militari, viene mandato qualche soldato con un biglietto d’alloggio al presbiterio (fatto piuttosto raro, perchè di solito vi si manda piuttosto un ufficiale). Per aiutare quei ragazzi a trovare la casa, si spiegò loro che era «la casa borghese accanto alla chiesa» …
Giovanni C. è un nostro bravo militante. Cristiano convinto e ardente, porta nella sua azione tutta la maturità di un padre di famiglia che ha varcato la trentina. Senza essere completamente ostile alla religione in passato, fu a lungo trattenuto da tutte le obbiezioni che circolano nel suo ambiente operaio. La scoperta della nostra mistica cristiana in tutta la sua forza gli ha permesso di sorpassare tutti quei pregiudizi; ma recentemente egli diceva ad uno di noi quanto gli era riuscito penoso vedere che il clero lasciava fra sè e la massa tante barriere; esse ormai non sono più un ostacolo per lui, ma lo impacciano tremendamente nel suo apostolato e sono per molti una causa di fermata nel loro cammino verso l’ideale cristiano. Egli ci disse:
— Il clero dà troppo l’impressione di una vita facile: quando usciamo dalle nostre case operaie con tutti i fastidi, talora angosciosi, delle nostre famiglie ed entriamo in un presbiterio tranquillo e confortevole, non ci pare più d’essere in casa nostra… E perchè i preti danno tanto l’impressione di fare del commercio? Se guardiamo l’amministrazione di certe parrocchie, ci sembra di trovarci di fronte ad una vasta impresa ben organizzata. C’è un prete per i battesimi, uno per i funerali, un altro per i matrimoni: e tutto in serie, come in una fabbrica d’automobili. Quando una giovane coppia o i genitori vengono a chiedere una messa di matrimonio, non è raro che per tutta risposta si sentano dire: «Di quale classe?» E il prezzo si uniformerà alla risposta degli interessati. Il prete che risponde così fa la figura di un onesto commerciante, che serve materialmente i suoi clienti… E perchè il clero mantiene solide simpatie con industriali e commercianti, solo per il fatto che hanno il portafoglio gonfio e sanno mostrarsi generosi all’occasione, mentre col loro personale dipendente non danno prova di senso sociale?… Povero popolo! — (così concluse il nostro militante) — Gli sarebbe tanto più facile capire il messaggio di Cristo, se si cominciasse col dargliene una testimonianza vivente!

Un altro militante, egli pure convertito, parlava nello stesso modo, assicurando che la grande obbiezione non è — come si potrebbe credere — la tal storia scandalosa (vera o falsa che sia), ma «la pretesa d’un numero troppo grande di preti di vivere agiatamente» e ciò che egli chiama «le loro esigenze commerciali». Secondo lui (e con suo rincrescimento) «il clero vive troppo poco col mondo operaio».

Una militante operaia si chiese se la Chiesa è borghese e si risponde:
— Sì: noi sappiamo che i parroci, tranne qualche eccezione, non conoscono la povertà, anzitutto perchè non la vivono e poi perchè non la esaminano nelle case altrui. La maggior parte di essi non sa che cosa significhi aver fame: sì, aver fame, provare (magari solo per un giorno o due) l’insufficienza del cibo ed accettarla per amor di Dio; ecco che cos’è la povertà! Se volessero privarsi ogni tanto di certe cose per vivere questa povertà, sarebbe una bella cosa! Avrebbero allora il diritto di dire dal pulpito la frase che ho sentita io quindici giorni fa: «Fratelli, manchiamo di molte cose: ebbene, accettiamo ed offriamo ciò al Signore; ma soprattutto dividiamo le nostre piccole provviste con chi non ne ha» … Ma questo capita di rado. Quanti preti si circondano di cure delicate! Il curato d’Ars era meno schizzinoso e ne ha guadagnato in salute: vivendo rozzamente, ha capito meglio la gente semplice e rozza, e per opera sua molti hanno amato Cristo.

Queste osservazioni sono piuttosto dure e noi le riteniamo persino ingiuste per certi confratelli che conoscono realmente le privazioni e danno generosamente quel che hanno a chi non ne ha. Dobbiamo però riconoscere che in molti casi toccano nel segno. Noi non siamo ricchi, ma non viviamo in una condizione d’incertezza per il domani come l’operaio. Ebbene, è appunto questa condizione d’incertezza, di cui abbiamo orrore, quella che caratterizza la vita proletaria e che ci renderebbe simili alla gente del l’ambiente popolare.

Noi ci sistemiamo a poco a poco nell’esistenza e troviamo che si sta benissimo; al punto che nel linguaggio clericale «una buona parrocchia» è diventata sinonimo non d’una parrocchia, in cui si è in piena lotta per la conquista, ma d’una parrocchia dove la sicurezza materiale del clero è meglio garantita che altrove: al punto che anche da noi si fa carriera e questa carriera consiste nell’essere mandati non nella parrocchia dove c’è più lavoro da fare, ma nella «buona parrocchia» di cui sopra. Figuratevi se non c’è qui una condizione di spirito veramente mediocre rispetto all’apostolato, e bisognosa d’una riforma!… Certo, noi non siamo più dei feudali; siamo liberi dalle proprietà dell’Antico Regime, gli alti e bassi della Borsa non tolgono il sonno a molti nostri confratelli, e le nostre risorse quotidiane provengono più dalla generosità dei poveri che dalla liberalità dei capitalisti. Con tutto ciò, in un ambiente popolare le apparenze ci classificano ancora troppo fra i borghesi, perchè possiamo avere su di esso l’irresistibile ascendente dei primi Apostoli, d’un San Martino, d’un San Francesco, d’un San Domenico, d’un San Vincenzo de’ Paoli, d’un santo curato d’Ars; e troppo «rumore di moneta intorno all’altare» impedisce al popolo d’accostarsi.