Via Crucis 2023

Venerdì 31 marzo 2023
Via Crucis interparrocchiale

Gesù è la nostra pace

“Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne.” (Ef 2,14)

 

INTRODUZIONE

S: Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
T: Amen.

S: Fratelli e sorelle, raccogliamo qui con noi, in un abbraccio di carità senza confini, tutti gli uomini che oggi sulla terra vivono e subiscono i drammi della sofferenza umana, in particolare il dramma della guerra ancora presente, tutte le situazioni che impegnano i cristiani a pregare per la pace e a farsi essi stessi costruttori di pace. In ciò, animati dalla speranza che Cristo, umiliato sulla croce, è risorto dai morti,  associando nella vita senza fine quanti credono in Lui.
Ripercorriamo insieme alcuni momenti del cammino della croce, per giungere a vedere con lo sguardo della fede la vittoria della Gioia sull’angoscia, dell’Amore sull’odio, della Vita sulla morte.
È scritto nella lettera agli Efesini: Cristo “è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia… per mezzo della croce, eliminando in sé stesso l’inimicizia”.
È Cristo, dunque, la nostra pace, un dono da chiedere e da accogliere nella libertà.
Occorre pregare per la pace e occorre lavorare per la pace. La pace è un lavoro artigianale, si fa con le ginocchia, con la volontà e col cuore, si fa con la propria vita: “Beati i costruttori di pace perché saranno chiamati figli di Dio”.

S: Preghiamo. O Padre, che ci hai amato fino a sacrificare il tuo dilettissimo Figlio, colmaci del tuo Santo Spirito: Egli ci renda veri discepoli di Cristo sperimentati nella sapienza della croce e lieti nella speranza della salvezza eterna. Per Cristo nostro Signore.
T: Amen.


PRIMA TAPPA (Riconciliazione)
“Ponzio Pilato condanna a morte Gesù”

G: Ti adoriamo Cristo e ti benediciamo
T: Perché con la tua santa Croce hai redento il mondo

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 27,22-23.26)
Chiese loro Pilato: “Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?”. Tutti risposero: “Sia crocifisso!”. Ed egli disse: “Ma che male ha fatto?”. Essi allora gridavano più forte: “Sia crocifisso!”. Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.

COMMENTO

L: Questa scena di condanna la conosciamo bene: cronaca quotidiana! Però una domanda ci brucia nell’anima: perché è possibile condannare Dio? Perché Dio, che è Onnipotente, si presenta nella veste delladebolezza? Perché Dio si lascia aggredire dall’orgoglio e dalla prepotenza e dall’arroganza umana? Perché Dio tace? Il silenzio di Dio è il nostro tormento, è la nostra prova! Ma è anche la purificazione della nostra fretta, è la terapia della nostra voglia di vendetta. Il silenzio di Dio è la terra dove muore il nostro orgoglio e sboccia la fede vera, la fede umile, la fede di chi si consegna al Padre con la fiducia di un bimbo. Signore, quanto è facile condannare! Quanto è facile lanciare sassi: i sassi del giudizio e della calunnia, i sassi dell’indifferenza e dell’abbandono! Signore, tu hai scelto di stare dalla parte dei vinti, dalla parte degli umiliati e dei condannati. Aiutaci a non diventare mai carnefici dei fratelli indifesi, aiutaci a prendere coraggiosamente posizione per difendere i deboli dai potenti di turno, aiutaci a rifiutare l’acqua di Pilato perché non pulisce le mani ma le sporca di sangue innocente. Illumina chi ha potere, perché lo usi sapendo che un giorno dovrà rendere conto a Dio; lo usi per aiutare le persone a crescere in una vera comunione di pace e mai per interesse personale o per finalità criminose.

PREGHIERE
G: Preghiamo insieme rispondendo: Signore, Dio della pace, ascoltaci.

G: Signore Gesù, tu hai subito un’ingiusta condanna. Aiuta chi amministra la giustizia affinché non sia mai condizionato da interessi di parte o dal prestigio personale, ma sia mosso unicamente dalla giustizia e dal bene delle persone. Preghiamo.

T: Signore, Dio della pace, ascoltaci.

G: Tu, o Padre, hai voluto che tuo Figlio sperimentasse l’amarezza del rifiuto del suo popolo. Fa’ che sappiamo anche noi amare chi non ci ama, chi non sopportiamo,mchi ci è nemico, per sentire in noi la pace che tu doni a chi compie la tua volontà. Preghiamo.

T: Signore, Dio della pace, ascoltaci.

T: Padre nostro…

CANTO (per le parrocchie Crocifisso-Riconciliazione):

L’UNICO MAESTRO 

Le mie mani, con le tue possono fare meraviglie,
possono stringere, perdonare e costruire cattedrali.
Possono dare da mangiare e far fiorire una preghiera.

Perché tu, solo tu,
solo Tu sei il mio Maestro e insegnami
ad amare come hai fatto Tu con me se lo vuoi
io lo grido a tutto il mondo che Tu sei,
l’unico Maestro sei per me.

I miei piedi, con i tuoi, possono fare strade nuove
possono correre, riposare, sentirsi a casa in questo modo.
Possono mettere radici e passo passo camminare.

Questi occhi, con i tuoi, potran vedere meraviglie,
potranno piangere, luccicare, guardare oltre ogni frontiera.
Potranno amare più di ieri, se sanno insieme a te sognare.

Tu sei il corpo, noi le membra, noi siamo un’unica preghiera,
Tu sei il Maestro, noi i testimoni, della parola del Vangelo.
Possiamo vivere felici, in questa chiesa che rinasce.


SECONDA TAPPA (Crocifisso)
Gesù è aiutato dal Cireneo

G: Ti adoriamo Cristo e ti benediciamo
T: Perché con la tua santa Croce hai redento il mondo

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 15,21)
Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo.

COMMENTO
G: Nel meditare su Simone il Cireneo che viene chiamato in soccorso di Gesù caduto sotto il peso della Croce, ci facciamo aiutare da don Luigi Maria Epicoco prima e poi da Papa Francesco, in particolare dalle parole della sua enciclica Fratelli tutti.

Lettore 1: Osserva don Luigi Maria che:
sarebbe bello leggere sul Vangelo non che Simone il Cireneo “fu costretto” ad aiutare Gesù, ma magari che Simone passando esclamò: “Lo aiuto io, quel poveretto!”. Invece il Vangelo dice proprio che “costrinsero un tale che passava da quelle parti”. 
Questo perché la maggior parte del bene che il Signore ci chiede di fare non riusciamo a riconoscerlo immediatamente, ma lo viviamo per lo
più come una costrizione: a volte siamo costretti a occuparci di qualcosa, costretti ad affrontare un problema, a prenderci cura di qualcuno. Se potessimo scegliere, sceglieremmo un’altra vita. Ma il Vangelo ci dice che si può diventare dei buoni Cirenei anche – e soprattutto – quando a volte ci troviamo costretti in situazioni che non abbiamo scelto: è lì che si compie la santità. Perché la santità non è fare il bene che ci piace, ma accogliere ciò che la vita ci riserva, nonostante tutto, perché la vita vera è imperfetta, contraddittoria, piena di cose che non avremmo scelto. E il Vangelo ci dice che possiamo diventare santi in una vita così.
Il cammino di Gesù verso il Golgota è pieno di gente che sembra inutile, perché incapace di salvargli la vita, proprio come Simone. Eppure grazie a loro quella via dolorosa non è più disumana. Essi non risolvono il problema di Cristo, ma restano nella sua vita in quel momento difficile: non avendo nessuna soluzione offrono la loro inutilità, ma anche la loro compassione.
La santità che ci insegna questa pagina del Vangelo è il saper restare nella sofferenza degli altri, anche inutilmente, nella via crucis di chi ci sta accanto.
Simone porta per un po’ la croce di Gesù, non gli salva la vita. Noi non siamo chiamati a salvare l’altro, ma solo a esserci, nella sua vita, in modo gratuito. L’amore è sempre gratuito, è sempre uno “spreco” agli occhi del mondo. 

Lettore 2: Le parole di Papa Francesco gettano una luce ulteriore sull’azione del Cireneo, tramite il confronto col Buon Samaritano. Anch’egli non ha scelto l’incontro con l’uomo lasciato in fin di vita dai malfattori, ma dice il Vangelo che “incappò in lui”, scegliendo però di farsene carico: Oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e  risentimenti. 
Come il viandante occasionale della nostra storia, ci vuole solo il desiderio gratuito, puro e semplice di essere popolo, di essere costanti e instancabili nell’impegno di includere, di integrare, di risollevare chi è caduto […]
Facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano. Le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per crescere, e non la scusa per la tristezza inerte che favorisce la sottomissione. Però non facciamolo da soli, individualmente. Il samaritano cercò un affittacamere che potesse prendersi cura di quell’uomo, come noi siamo chiamati a invitare e incontrarci in un “noi” che sia più forte della somma di piccole individualità […]
Rinunciamo alla meschinità e al risentimento dei particolarismi sterili, delle contrapposizioni senza fine. […]
Il samaritano della strada se ne andò senza aspettare riconoscimenti o ringraziamenti. La dedizione al servizio era la grande soddisfazione davanti al suo Dio e alla sua vita, e per questo un dovere. Tutti abbiamo una responsabilità riguardo a quel ferito che è il popolo stesso e tutti i popoli della terra. Prendiamoci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni bambino e di ogni anziano, con quell’atteggiamento solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità del buon samaritano.

PREGHIERE
G: Preghiamo insieme rispondendo: Signore, Dio della
pace, ascoltaci.

G: Simone il Cireneo ci fa ricordare con il cuore pieno di gratitudine i tanti volti di persone che ci sono state vicine nei momenti in cui una croce pesante si è abbattuta su di noi. Ci fa pensare anche ai tanti volontari che in molte parti del mondo si dedicano generosamente a confortare e aiutare chi è nella sofferenza e nel disagio. Impariamo da Gesù Signore che soffre sulla Via della Croce a farci aiutare con umiltà, quando ne abbiamo bisogno e impariamo da Simone il Cireneo a cogliere le occasioni che si presentano nelle nostre giornate per aiutare gli altri. Preghiamo insieme:

T: Signore, Dio della pace, ascoltaci.

G: Signore, a Simone di Cirene hai aperto gli occhi e il cuore donandogli, nella condivisione della croce, la grazia della fede. Chiamaci a stare vicini al nostro prossimo che soffre, con amore e compassione, anche se questa chiamata dovesse essere in contraddizione con i nostri progetti e se la nostra vicinanza dovesse apparire agli occhi del mondo inefficace a risolvere i problemi. Preghiamo.

T: Signore, Dio della pace, ascoltaci.

T: Padre nostro…

CANTO (per le parrocchie Crocifisso-Riconciliazione):

COME TU MI VUOI

Eccomi, Signor, vengo a te mio Re,
che si compia in me la tua volontà.
Eccomi, Signor, vengo a te, mio Dio,
plasma il cuore mio e di te vivrò.
Se tu lo vuoi, Signore, manda me
e il tuo nome annuncerò.

Come tu mi vuoi, io sarò,
dove tu mi vuoi, io andrò.
Questa vita, io voglio donarla a te
per dar gloria al tuo nome, mio Re.
Come tu mi vuoi, io sarò,
dove tu mi vuoi, io andrò.
Se mi guida il tuo amore, paura non ho,
per sempre io sarò, come tu mi vuoi.

Eccomi, Signor, vengo a te, mio Re,
che si compia in me la tua volontà.
Eccomi, Signor, vengo a te, mio Dio,
plasma il cuore mio e di te vivrò.
Tra le tue mani mai più vacillerò
e strumento tuo sarò.

Come tu mi vuoi  ……………
………………………………..
io sarò, come tu mi vuoi… (3 volte)


TERZA TAPPA (San Gaudenzo)
Gesù incontra le donne di Gerusalemme

G: Ti adoriamo Cristo e ti benediciamo
T: Perché con la tua santa Croce hai redento il mondo

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23,27-31)
Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline: “Copriteci!”. Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?».

COMMENTO
L’evangelista Luca riporta che una gran folla di popolo seguiva Gesù lungo il tragitto verso la crocifissione; anche delle donne facevano parte del corteo, battendosi il petto e gemendo su di Lui, non lasciandosi intimorire dalle guardie o dai capi dei giudei. Provavano compassione per Gesù, sapevano che il suo destino era segnato e davano inizio al cordoglio e al lamento prima della sua morte.
Malgrado il dolore e la sofferenza che sta provando, Gesù rivolge ad esse uno sguardo e una parola. È l’unica volta che Gesù parla durante il viaggio verso il Calvario. “Non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli”: Gesù non dubita della sincerità delle donne e le esorta a non fare cordoglio per Lui, ma per loro stesse e i loro figli. Perché la sofferenza che ora si abbatte su di Lui, presto si abbatterà su Gerusalemme, che Lo condanna a morte, Lui, l’innocente, il legno verde. Le invita a piangere per sé stesse ed i loro figli perché, di lì a poco, sarebbero state coinvolte nella distruzione di Gerusalemme e la sofferenza sarebbe stata ben più grande. Con queste parole Gesù annuncia profeticamente la distruzione di Gerusalemme: infatti circa 40 anni dopo la città ed il suo Tempio saranno distrutti dai Romani con scene di guerra, fatti di atrocità, di sofferenze, di crudeltà e di uccisioni che colpiranno i suoi abitanti, decimandoli.
Questa “profezia” di Gesù non è rimasta limitata alla distruzione di Gerusalemme, ma si è prolungata con le sofferenze delle donne (e degli uomini) di ogni tempo a causa del peccato personale e sociale dell’uomo; continua ancora oggi col dolore e patimento umano di fronte alle innumerevoli morti innocenti che fanno continuare nel tempo la via Crucis di Gesù.
Pensiamo alle continue sofferenze e lutti delle donne che abitano ed hanno abitato la Palestina, la terra di Gesù, tormentata dai conflitti fra israeliani e palestinesi, con periodiche accensioni di tensioni ed attentati, perché i due popoli, arabi ed ebrei, non riescono a trovare una pacifica convivenza all’interno dello stesso territorio.
Pensiamo al numero indefinito di vittime causate dal contemporaneo conflitto russo/ucraino e al continuo stillicidio umano provocato dai numerosi focolai di guerra presenti nel mondo.
Alle tante morti bianche sul lavoro, dovute spesso alla mancata adozione di adeguati sistemi di sicurezza e di tutela dell’incolumità dei lavoratori.
Al cospicuo e indeterminato numero di persone, uomini, donne e bambini, che sono morte, disperse e che continuano a morire lungo le rotte migratorie. Non possiamo non ricordare l’ultima ed immane tragedia consumatasi alla fine del mese di febbraio sulle coste calabresi di Cutro, che ha portato alla morte per annegamento di più di ottanta persone: donne, bambini, neonati, uomini, giovani, provenienti dall’Afghanistan, dal Senegal, dalla Siria, dall’Iran, dal Pakistan.
Ricordiamo pure le tante e numerose donne vittime di femminicidi.
Ma consideriamo anche il grande numero di persone che nel mondo vengono discriminate, subiscono violenze e vengono uccise a causa delle persecuzioni religiose, fenomeno che si abbatte anche su molti cristiani.
Teniamo a mente altresì le tante persone che ancora oggi, purtroppo, nel mondo muoiono per fame o per mancanza di presidi medici di base.
Ancora oggi le parole di Gesù: “Non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli” risultano vive ed attuali e vogliono orientare il pianto dell’umanità affranta e desolata per la perdita violenta dei propri cari, verso un motivo più alto: a piangere per il peccato del rifiuto della salvezza che Gesù con la sua croce offre ad ogni uomo, per tutti i peccati e le strutture di peccato che allontanano Dio dal cuore dell’uomo e sono la causa della sua Passione e Morte.

PREGHIERE

G: Preghiamo insieme rispondendo: Signore, Dio della pace, ascoltaci.

G: Preghiamo per tutte le donne, gli uomini e i bambini che soffrono: Dio Padre liberi il mondo da ogni violenza, allontani la malattia, estingua la fame, renda la libertà agli oppressi, la salute ai malati, la consolazione ai morenti. Preghiamo.

T: Signore, Dio della pace, ascoltaci.

G: Preghiamo perché ciascuno riceva la forza e il coraggio di sostenere, con gesti e parole di Pace, il dolore e la sofferenza di quanti vivono il calvario dello sfruttamento, della violenza, della guerra e dell’ingiustizia. Preghiamo.

T: Signore, Dio della pace, ascoltaci.

T: Padre nostro…

CANTO (per le parrocchie Crocifisso-Riconciliazione):

LA CARITA’

Se parlassi ogni lingua sulla terra, ma l’amore non ho,
sono un bronzo echeggiante, un cembalo sonante.
Avessi pur la profezia, conoscessi ogni scienza,
la mia fede fosse grande da trasportare le montagne,
ma l’amore non ho, sono niente,
la mia vita non ha senso se non amo, sono niente,
la mia vita non ha senso se non amo.

Distribuissi ai poveri i miei beni, dessi il mio corpo alle fiamme,
ma se l’amore non ho, niente mi giova.
Passeranno le profezie, taceranno tutte le lingue,
la scienza un giorno finirà, ma l’amore mai tramonterà,
perché spera quando tutto sembra perso,
perdona ogni volta che è offeso,
non va in cerca del suo, ma gode della verità.


QUARTA TAPPA (San Raffaele)
Gesù è inchiodato alla Croce

G: Ti adoriamo Cristo e ti benediciamo
T: Perché con la tua santa Croce hai redento il mondo

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 27,37-42)
Al di sopra del suo capo posero il motivo scritto della sua condanna: “Costui è Gesù, il re dei Giudei”. Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra. Quelli che passavano di lì lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: “Tu, che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!”. Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli
anziani, facendosi beffe di lui dicevano: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui”.

COMMENTO
Il Signore Gesù è arrivato sulla cima del Golgota, sul punto della terra più vicino al cielo, è arrivato al culmine dell’amore donato.
Contempliamo quindi il Crocifisso perché è la celebrazione dell’amore totale di Dio verso l’umanità intera, verso ciascuno. La Croce dice inequivocabilmente che Dio ci ama, che non dobbiamo mai dubitare del suo amore, qualunque cosa accada alla nostra vita. Egli è lì e ci ama gratuitamente e infinitamente. La Croce non è quindi un annuncio di sofferenza e di morte, è, al contrario, un messaggio di speranza e di gioia, di vita e di salvezza per tutti.
Le braccia aperte di Cristo sulla croce sono il segno più grande di un Dio che abbraccia tutti e ciascuno, un abbraccio che unisce l’umanità intera e gli dona la Pace. Il Crocifisso, simbolo di una sofferenza affrontata per amore, non è perciò un simbolo che divide, ma che unisce l’umanità attorno ai valori della dignità di ogni persona, della pace, della fratellanza, dell’amore verso il prossimo, del perdono, della solidarietà; condivisibili, per il loro carattere universale, anche da chi crede di non credere.
Chiediamo allora a Gesù crocifisso che ci aiuti a cambiare il nostro cuore, ad essere costruttori di pace nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, in tutti i luoghi della nostra vita. Chiediamo la Pace del cuore e la Pace nel mondo.

PREGHIERE
G: Preghiamo insieme rispondendo: Signore, Dio della pace, ascoltaci.

G: Signore, tu che dalla croce hai bandito queste parole: divisione, odio e guerra; disarma la lingua e le mani, rinnova i cuori e le menti, perché la parola che ci fa incontrare sia sempre fratello e lo stile della nostra vita diventi pace. Preghiamo.

T: Signore, Dio della pace, ascoltaci.

G: Gesù, hai concentrato tutto il tuo amore per noi nella morte in croce: aiutaci a comprendere che tu non ci ami perché siamo perfetti, ma ci ami nelle nostre miserie, nelle nostre debolezze. Donaci il coraggio di metterle davanti al tuo amore, affinché la tua luce entri veramente nelle nostre sofferenze e diventi il nostro punto di forza. Preghiamo.

T: Signore, Dio della pace, ascoltaci.


CONCLUSIONE
S: Signore Gesù, al termine di questo momento dedicato alla tua Passione leviamo a Te le nostre voci, fiduciosi nel tuo ascolto. Ti  benediciamo perché sei per noi sorgente di vita, ti fai carico delle nostre sofferenze, con la tua santa croce hai redento il mondo. Crediamo che non ci lasci soli nell’ora della prova, che il tuo Vangelo è vera sapienza. Riconosciamo il tuo corpo martoriato in tanti nostri fratelli e sorelle, ti riconosciamo umiliato e respinto in tanti profughi, la violenza che hai subito in chi è vittima della guerra, il tuo abbandono nello strazio di chi viene ucciso. Tu, che hai voluto vivere in una famiglia, guarda con benevolenza le nostre famiglie:
esaudisci le preghiere, ascolta i lamenti, benedici i propositi, accompagna il cammino, sostieni le incertezze, consola gli affetti feriti, infondi il coraggio di amare, concedi la grazia del perdono, rendici aperti ai bisogni degli altri.
Signore Gesù, Tu che sei il Crocifisso Risorto, fa’ che non ci lasciamo rubare la speranza di una nuova umanità, dei cieli nuovi e della terra nuova, dove asciugherai ogni lacrima dai nostri occhi e non vi sarà più lamento, né affanno, perché le cose vecchie sono passate e saremo una grande famiglia nella tua casa di amore e di pace.

Saluto finale

T: Padre nostro…

Benedizione finale


PROCESSIONE ALLA CROCE
Mentre i cori accompagnano con i canti, ci avviciniamo con ordine alla Croce e facciamo un inchino.

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 315-325

APOSTOLI PER L’OPERA MISSIONARIA

 

  1. Con una spiritualità autenticamente sacerdotale

Il programma da voi tracciato è attraente: ci vogliono anche gli uomini capaci di metterlo in pratica, però.

Ecco infatti una questione cruciale. Molte volte, conversando con qualche confratello sui problemi di apostolato che solleviamo qui, sulle esigenze attuali della riconquista delle masse e su ciò che potrebbe essere un apostolato missionario, siamo giunti a questa conclusione:
— Ci occorrono preti capaci d’intraprendere e di sostenere un tale sforzo.

Altre volte, parlando del medesimo problema con qualche laico, abbiamo avuto il dolore di sentire costui dire sospirando:
— Sì, ma bisognerebbe che i preti capissero!

E siccome i laici sono meno indulgenti di noi, ed anche meno al corrente delle difficoltà del ministero, udivamo soggiungere con un pizzico di amarezza:
— In tutti i casi, non saranno certamente nè il mio curato nè i preti della mia parrocchia quelli che potranno fare ciò.

Si tratterebbe dunque non tanto di avere buoni metodi, come uomini capaci di scoprirli: non tanto di forgiare buoni strumenti, come di forgiare buoni operai.

Quel che conta di più è la corrente di vita, l’anima che l’apostolo porta alla sua missione, quell’anima che egli sa trasmettere a chi gli sta intorno, alla sua parrocchia, alla sua opera. Non abbiamo forse visto preti meravigliosamente dotati fare fiasco dovunque, mentre altri dalle possibilità apparentemente limitate davano un intenso rendimento apostolico? Si vede chiaramente che il valore apostolico d’un sacerdote non è in necessaria e proporzionale relazione col suo valore intellettuale, per prezioso che sia e sotto qualunque forma si manifesti: filosofica, artistica, letteraria, inventiva. È piuttosto in rapporto col suo valore d’anima, col suo coefficiente di ardore spirituale.

È proprio quel che si dice ai seminaristi, durante i ritiri: «Siate santi e farete del bene».

Nessun prete che abbia esperienza del ministero può non sottoscrivere questa affermazione. Bisogna però intendersi: c’è santità e santità. Come c’è la bellezza innata e la bellezza delle creature, c’è anche la Santità in Dio e la santità degli uomini; e fra questi sono molteplici le forme di santità: quella del laico non è la stessa di quella del prete e quella del prete nel ministero non è quella del monaco o del frate predicatore.

Da tutto ciò che abbiamo detto sin qui s’impone manifestamente una conclusione: noi preti, noi missionari parrocchiali, dobbiamo avere uno stile di vita, un fuoco interno, un’intensità di forza che siano fuori del comune. Questa vitalità interiore ad irradiamento apostolico non potrebbe qualificare una speciale santità sacerdotale e determinare una spiritualità sacerdotale?… Oh, lungi, lungi da noi il pensiero di dare lezione a chicchessia e la pretesa di tracciare le linee d’una nuova spiritualità! Questo non rientra nè nel nostro compito nè nei nostri mezzi. No! Noi vorremmo solo far vedere che:

1) l’apostolato quale lo consideriamo noi esige da parte nostra una vita interiore capace di creare in noi una «mistica» propriamente sacerdotale;

2) Esso costituisce di per sè un mezzo di santificazione, una «ascesi» propriamente sacerdotale, che conduce per se stesso alla santità.

Vorremmo infine far vedere che, nel catalogo delle santità — se così si potesse dire — non tutte sono buone: talune potrebbero, anzi, essere dannose al nostro ministero.

Quali relazioni stabilite voi fra «apostolato» e «mistica sacerdotale»?

Ricorderete quel che dicemmo quando parlavamo di ciò che più di tutto ci sta a cuore: l’apostolato diretto, specialmente presso gli adulti. Dicevamo che si tratta di portare il messaggio di Cristo, d’accostarsi alle anime, di far loro condividere le ricchezze che portiamo in noi, di comunicare loro l’amore che riempie i nostri cuori. Si tratta assai più di slancio e di convinzione che d’organizzazione e di teoria. Non è una novità, direte. Dopo tutto, le opere concepite da un secolo, i mezzi d’apostolato previsti, organizzati, non hanno altro scopo che quello di metterci a contatto con le anime, sia dei bambini che dei giovani e degli adulti, precisamente per dare loro Cristo… È vero: a patto però che l’apostolato sia talmente forte, e che la sua convinzione sia così ardente, da essere capace di trascendere quei mezzi e di costituire di per sè un polo d’attrazione sufficiente per le anime che cercano e un focolare che possa risvegliare i cuori addormentati. La preoccupazione dell’organizzazione può uccidere l’apostolato.

Ed anche un modo particolare di vedere e concepire la dottrina. Parlando della predicazione, ci dolevamo che ci abbiano insegnato così bene a trattare della Trinità, dell’Incarnazione, della Redenzione, e non abbastanza a parlare di Gesù Cristo. Abbiamo constatato che la nostra formazione scolastica ci rendeva più adatti ad esporre concetti astratti, a costruire un’argomentazione, che a portare un messaggio e a parlare di Cristo come d’un Vivente, del grande ed unico Maestro e Amico. Affare di cuore ancor più che d’intelligenza: si tratta di un accento da mettere a posto, più che di idee da esporre. Non dicevamo per questo che i nostri anni di filosofia e di teologia siano stati inutili. Tutt’altro! Forti basi intellettuali sono necessarie a chi deve portare la propria fede in un mondo dove gli errori e i pregiudizi brulicano come vermi. Ma è importante che le nostre astrazioni scolastiche non abbiano raffreddato il nostro entusiasmo e il calore della nostra convinzione. E così pure, se parliamo di spiritualità, diciamo che bisogna stare in guardia da una spiritualità arida, esangue, una spiritualità da ufficio o da laboratorio, staccata dalla vita, che ci impedirebbe di portare il messaggio e d’essere portati da ciò che portiamo, o che semplicemente ci farebbe rallentare il passo.

Quanti giovani confratelli, entrando in seminario, hanno sognato di conquistare il mondo! Ben pochi, certamente, considerano il sacerdozio come una sinecura: ben pochi, nel giorno dell’ordinazione, non hanno la preoccupazione d’essere ottimi preti, e quando sono designati per una parrocchia non vi arrivano col desiderio di trasformarla… Quell’entusiasmo non dovrebbe cadere, quello slancio non dovrebbe rallentarsi. Questo non si verificherebbe — o almeno correrebbe meno il rischio di verificarsi se si fosse ben mostrato al seminarista che quell’ardente desiderio è santo e santificante. Perchè accade così spesso che si prenda gusto a gettare acqua sul fuoco divoratore dei nostri primi anni? È dunque così necessario raffreddarlo? Perchè, al contrario, non servirsi invece di questa potente leva per portarci, per sollevarci, per mantenerci in stato di generosità, di dono di noi stessi? … Ricordiamo che, all’inizio d’un anno scolastico, il superiore del seminario ci disse, come preambolo ad una serie di letture spirituali:
— Quest’anno, signori, voglio parlarvi dello zelo. E siate anzitutto prudenti…

Del resto, tutta la serie dei colloqui fu su questo tono, a base di prudenza, di calma, di circospezione. Dio mio! Di che cosa aveva paura, il superiore? che scavalcassimo il muro di cinta del seminario per andare a predicare nei sobborghi della città?… II nostro innato egoismo s’incaricherà abbastanza presto di rallentare il nostro zelo!

Di fronte a quegli ardori giovanili, non sarebbe stato più accorto e più efficiente basarsi sul loro desiderio, sul loro amore delle anime, per invitarli a ricavare buon profitto dal seminario? Se il superiore ci avesse detto: «Temete, signori, che un giorno il vostro zelo diminuisca: intensificate il vostro amore di Cristo e delle anime: perchè c’è bisogno di voi, perchè siete chiamati, perchè le difficoltà saranno enormi e avrete bisogno di molto amore», non avrebbe trovato la strada dei nostri cuori con maggior sicurezza che mostrando di dirci: «Io temo,. signori, che il vostro zelo sia eccessivo?»

Insomma, voi stimate che l’apostolato quale lo concepite richiede una preparazione spirituale almeno forte come la preparazione intellettuale su cui si insiste per lo più?

Sì. Esso non può partire che da una mistica caldissima, vivissima. D’altronde, quando dite «l’apostolato quale voi lo concepite», cioè l’apostolato diretto, senza svolte, quello che parla senz’altro di Cristo agli adulti, non dovreste invece dire semplicemente «l’apostolato»?

Quando ne parliamo, udiamo spesso questa riflessione:
— Sì, ma per questo ci vuole un temperamento speciale.

Che cosa s’intende dire con ciò? Se si pretende che ci voglia un insieme di doni semi-psicologici, semi-fisiologici, i quali si traducano in una certa audacia e in una certa disinvoltura quasi naturali, non siamo d’accordo. È però esatto che occorrano certe qualità acquisite, una vittoria sulla propria innata timidezza, un tale ardore da farci dominare le nostre apprensioni. È nondimeno questione di spiritualità, non di temperamento… Veniamo al concreto. Quando si parte per un giro di visite, per andare a trascorrere un pomeriggio battendo di porta in porta, chiedendosi ad ogni soglia se si sarà ricevuti meglio o peggio, è evidente che bisogna sentirsi spinti da una seria passione interna. Noi che l’abbiamo intrapreso, confessiamo che solo l’allenamento della squadra ci ha permesso di realizzarlo e che parecchi fra noi non ne avrebbero avuto il coraggio, se fossero stati soli. Ne è prova il fatto che, durante i primi tre anni del nostro ministero qui, ciascuno di noi si lasciò assorbire da tutt’altra occupazione che ci serviva tanto da pretesto come da valida ragione per non partire…

Conosciamo invece giovanissimi confratelli, recentemente usciti dall’ordinazione, che durante le vacanze di Pasqua hanno sollecitato dai superiori il permesso di recarsi per tre giorni in parrocchie scristianizzate dell’Jonne. Sia all’andata che al ritorno in ferrovia, e nel villaggio, durante i tre giorni di permanenza, non hanno mai cessato d’entrare in contatto e di parlare direttamente di Gesù Cristo. I risultati, le conversioni d’anime, sono stati molto incoraggianti. Si trattava da una parte di giovani preti inesperti e dall’altra di contadini molto refrattari. Ma ecco: nel cuore di quei giovani era una mistica, un ardore, un fuoco divoratore, un po’ alla maniera di San Paolo. Non bisogna quindi stupirsi se quel fuoco accendeva, almeno qua e là, qualche fiamma, se non qualche incendio.

Fortunati preti, che entrano nel ministero con quella prospettiva del contatto diretto con le anime, con quella volontà di dedicarsi completamente ad esse, di compromettersi sino in fondo! Invece noi siamo entrati nei nostri posti intravvedendo la nostra attività solo sotto l’aspetto d’una gerenza d’opere o d’un apostolato ben avvolto in una rete d’attrazioni più o meno facili da organizzare.

Ci rallegriamo dello zelo di certi militanti laici. Con le lacrime agli occhi, sentiamo raccontare i begli atti dei nostri giovani: conquiste personali, il minuto di silenzio del Venerdì Santo ottenuto in pieno laboratorio. Noi ammiriamo questi giovani: saremo dunque meno audaci, meno capaci di porre davanti agli uomini l’augusto volto del Maestro? Confessiamo che spesso i nostri laici ci superano e sanno, meglio di noi, riscaldare le anime al loro contatto. Perchè? perchè la loro spiritualità li porta a ciò, e la nostra non abbastanza. La nostra spiritualità non ci dona sufficiente urgenza di parlare di conquistare, essendo troppo separata dalla nostra vita.

Voi ricusate dunque d’opporre «vita apostolica» a «vita spirituale»?

Nel modo più assoluto! Non soltanto non c’è opposizione, ma vi è un intimo legame. Taluni capiscono ancora che la vita apostolica esige una mistica, come dianzi abbiamo detto. Pochi capiscono che questa stessa vita apostolica promuove, porta la vita spirituale. A seguire certi autori e certi consiglieri, si direbbe che vi sia tra esse un antagonismo fondamentale, il quale può essere ridotto solo a forza di prudenza, di protezioni, di precauzioni. La spiritualità che essi preconizzano sembra essere, in grosso, una spiritualità da «separati»: bisogna accumulare, durante i cinque o sei anni di seminario, tutto ciò che si può di vita interiore, per mezzo degli «esercizi spirituali»: e poi cominciano i pericoli… Si salvaguarderà tutto quel che si potrà, si cercherà di non perdere troppe riserve ammassate, com’è quasi fatale nella vita attiva. E per questo si creeranno isolotti, oasi quotidiane, protetti il più possibile contro l’intrusione della vita esterna, che necessariamente vuota e indebolisce.

Noi. non intendiamo nè deprezzare il valore degli esercizi spirituali, nè intraprendere una discussione sul valore dell’«orazione diffusa», contrapponendola all’orazione del mattino. Non è affar nostro. Pensiamo però che questi esercizi di pietà sono infinitamente più pieni, più vivificanti, quando si basano sulla preziosa leva della passione di salvare le anime e di far conoscere Cristo. Si appoggino alla nostra vita apostolica, vivano di essa, e la nostra vita apostolica vivrà di essi. Se nell’orazione io vedo solo l’apertura della mia anima su Dio e la mia personale ascesa, non sono sicuro di essere eternamente sedotto da questa prospettiva e potrò sempre ritrovarvi il mio io, il semplice desiderio d’una formazione personale da compiere. Se invece penso a Dio che non è amato, adorato: se penso a tutte le anime, alla loro miseria, o alla loro fame, tutta la ragione d’essere della mia vita e della mia vocazione sacerdotale mi innalzerà verso di Lui. E la mia orazione atterrerà senza sforzo, mezz’ora dopo, nell’azione della mia giornata.

Mi si dirà che c’è pericolo d’esteriorizzarsi, e per certuni quello di lasciarsi andare ad eccessi di zelo. Naturalmente! ma si faccia dunque il conto delle energie sacerdotali perdute, delle vite di preti interamente compromesse, e si vedrà forse che vi sono più ali infrante da troppo saggi consigli di prudenza, dai ragionamenti o dalle sghignazzate dei compagni più anziani, dagli scoraggiamenti che non si seppero impedire, dalla negligenza che ha lasciato disimpiegate giovani forze, che non dalle intemperanze di zelo o dalle esagerazioni apostoliche. Disgraziatamente, vi sono in queste vite perdute più indifferenti che consumati, ed è questo lo spettacolo desolante. Si parla sempre dei peccati d’azione: non si pensa mai ai peccati d’omissione. Ebbene, i peccati d’omissione delle generazioni sacerdotali che ci hanno preceduti, ed anche della nostra, chiudono i conti col 90% di perdita delle nostre anime parrocchiane.

Quel che ci rattrista è vedere certi confratelli (che sappiamo animati da eccellenti intenzioni e desiderosi del bene) sistemati in una sorprendente tranquillità d’animo, di fianco a migliaia d’anime che attendono da essi la salvezza. Donde proviene quell’apatia? Eppure, essi sono fedeli alla regola, non tralasciano nessuno degli esercizi di pietà previsti sin dalla loro uscita dal seminario. Ne abbiamo persino visto uno che, per non derogare dal programma che si era fissato, rimandava rigidamente indietro un parrocchiano venuto a domandargli un consiglio dopo una giornata di lavoro.

Sembra strano che il contatto con Dio diminuisca la fiamma apostolica. Non esagerate, forse?

Ecco: quel modo di concepire la vita spirituale al quale alludevamo non è un contatto con Dio, per parlare con esattezza. È un semplice ritualismo, una fedeltà materiale ad esercizi o a lavori. Non c’è più, a dire il vero, orazione, contemplazione, unione a Dio: c’è abitudine, andazzo. Costoro sono tranquilli nell’anima e nella coscienza sin dal momento in cui hanno finito il loro tempo di guardia, soddisfatto il compito loro assegnato e seguito a puntino il loro regolamento personale. È rattristante che ci si possa sedere tranquilli e credersi sdebitati verso Dio, appena si sono compiuti gli esercizi di pietà o sbrigati onestamente gli affari correnti, mentre le masse restano pagane e tutte le intelligenze, tutti i cuori di preti non sono di troppo per esaminare problemi urgenti e cercarne la soluzione. È rattristante che a questa rovina possano assistere dei preti, e che essi pensino di santificarsi senza tentare di fermarla…

Come chiamare «buon prete», «santo prete», qualcuno che non avesse la passione delle anime, solo perchè è regolare, puntuale, e giudica tutte le cose quietamente, spingendosi sino ad eliminare in sé stesso i problemi che dovrebbero attanagliarlo e impedirgli di dormire? Non è la sua vita spirituale a renderlo così, ma una vita spirituale immiserita, senza profondità, dove il «caritas Christi urget nos» non trova posto: una vita spirituale che non è «sacerdotale».

Noi non possiamo ammettere che per un prete l’ideale della vita consista in un’esistenza senza vicende, senza complicazioni, dove tutto si accomoda grazie ad una saggia diplomazia, magari a spese delle anime…

Era la sera dell’ordinazione d’un giovane sacerdote. Il suo parroco, venuto a far visita alla famiglia, si ritenne in dovere di dargli qualche consiglio e di formulare qualche augurio sulla soglia di quella giovane vita sacerdotale:
— Vedi, mio caro Pietro… Tu stai per iniziare il tuo ministero. Ebbene, io ti auguro una bella vita: una vita come la mia. Io sono sempre riuscito bene: non ho mai avuto difficoltà, complicazioni… Ed eccomi parroco di X, in un bel posto che molti confratelli m’invidiano. Sai come ho fatto? Ho sempre evitato le storie.
— Come San Paolo! — bisbigliò il giovane prete all’orecchio d’un amico seminarista.

Povero ideale! Quello del funzionario mediocre. Lo si trova in tutti i meccanismi dell’amministrazione civile e rende sclerotico un paese. Ma da noi non si dovrebbe mai incontrarlo, perchè è agli antipodi dell’ideale che ci viene dal Vangelo e dagli Atti degli Apostoli: e rende sclerotica la Cristianità. Non proviene in parte dal fatto che non si sono abbastanza legate, «vita spirituale» e « vita apostolica »? dal fatto che non si è protestato abbastanza contro il peccato di pigrizia, contro la mancanza di zelo? dal non avere abbastanza mostrato che, per un prete nel ministero, la santificazione è essenzialmente legata all’apostolato? che il prete non può santificarsi senza essere apostolo, che i suoi esercizi spirituali devono adattarsi alla sua missione apostolica come alla sua propria ascesa verso Dio? È necessario che il nostro amore della tranquillità non possa sentirsi garantito — per non dire canonizzato — dai falsi dogmi della opposizione fra vita apostolica e santificazione.

Dovete però ammettere che certe forme della vita apostolica contrariano parecchio la vita spirituale!

D’accordo! ma sono appunto quelle meno propriamente «apostoliche» e «sacerdotali»: cinematografo, teatro, sport, lavori manuali, giuochi, passeggiate, e tutte quelle pratiche amministrative in cui ci trascinano le opere. Questi lavori sono in una linea che non è precisamente quella della nostra vocazione: sono lavori da laici. Vi si può certamente trovare materia per abnegazione e devozione, e quindi occasione di santificarsi; ma in se stessi distraggono dal soprannaturale, e chi vi si dedica ha bisogno di difendersi contro l’attivismo naturale e di vegliare attentamente, per mantenere il contatto con Dio.

Tutto questo serve anche se si tratta di quell’apostolato diretto che noi rivendichiamo come nostro vero apostolato. La sua sorgente è anzitutto nel desiderio, nel bisogno di portare Cristo. Quante volte l’apostolo capirà che il suo amore non è all’altezza di quel che dovrebbe essere, perchè non gli risale abbastanza naturalmente dal cuore alle labbra! Ora, in queste constatazioni di deficienza, in questi dolori d’impotenza, non c’è per il prete un meraviglioso stimolante? Senza dubbio un pomeriggio trascorso a prendere in visione pellicole, a dar calci a un pallone, a sollecitare l’aiuto di qualche benefattore, è facilmente deprimente e minaccia di trascinare l’anima agli antipodi della contemplazione. Ma quando si passano ore ed ore ad attendere al varco le confidenze delle anime, a parlare loro di Dio, a stabilire con esse un contatto spirituale, a svegliare negli indifferenti l’inquietudine religiosa, non si è naturalmente ricondotti ai piedi del Maestro? Chi di noi non è uscito migliore, dopo lunghe ore passate nel confessionale? Chi di noi non si è sentito l’anima più vibrante e il cuore più caldo, dopo la tale riunione di militanti o la tale adunanza in casa di un cristiano? Quanti sermoni sono stati per noi, mentre li preparavamo, la migliore meditazione? Tutto questo insieme fa vivere in un’atmosfera divina: è un perpetuo stimolante per la vita interiore. Non si può dire che la contemplazione vi trova ciò che fa per essa? (non la meditazione che si addice ai certosini, ma quella che si adatta agli apostoli).

Siccome la vita attiva, quella che noi conduciamo, consiste essenzialmente nella distribuzione delle cose di Dio, i teologi credono che essa abbia il privilegio «d’un legame diretto e d’una specie di continuità con la vita contemplativa» (Lemonnier – «Vita umana»): perchè la sua sorgente è normalmente nella pratica di quella Verità — in cuius consideratione et amore delectatur — che l’ApostoIo è felice di guardare e di amare (S. Tommaso II.a II.ae, q. 181 – art. 3).

 

Il carnevale dei sogni

IL CARNEVALE DELLA ZONA PASTORALE  12 FEBBRAIO 2023

Un nuovo vescovo per Rimini

mons. NICOLO’ ANSELMI

Se la povertà diventa una colpa e il lavoro punisce i fannulloni 

Cosa rivela la decisione di rivedere il Reddito di cittadinanza

di LUIGINO BRUNI su Avvenire 24/11/2022

È sempre più chiaro perché il nuovo governo abbia voluto il merito tra le sue parole-chiave. Ce lo rivela anche il programma di ridimensionamento (da subito) ed eliminazione (dal 2024) del Reddito di cittadinanza (Rdc), perché il merito che giustificherebbe la riscossione del reddito sarebbe l’impossibilità di lavorare pur volendo lavorare.

Se, invece, pur potendo lavorare qualcuno decide di non farlo, gli sarà tolto “anche quello che ha”.

Nell’immaginario di chi ci governa, tra quel un milione circa di cittadini – che percepiscono in media attorno ai 500 euro mensili – ci sarebbe dunque una significativa quota di colpevoli. Poi, uno guarda i dati e si chiede da dove provenga questa convinzione. Chi conosce almeno alcune delle famiglie percettrici di Rdc, sa benissimo che se queste persone non lavorano è quasi sempre per qualche ragione seria, ragioni complesse, ma la distanza tra i governanti e i poveri veri è un grande problema della democrazia.
I potenti parlano di poveri in astratto come io parlo di Marte e di Saturno, quindi sono totalmente incompetenti in materia – incompetenza pratica e teorica.

La povertà o, come preferisco dire per amore di Cristo e san Francesco, la miseria, è una questione di capitali non di redditi, lo andiamo ripetendo, invano, da almeno dieci anni su queste colonne. Chi è “povero” lo è per una mancanza cronica di capitali educativi, sociali, professionali, famigliari, sanitari, emotivi, relazionali, e questa mancanza di capitali (di stock) si manifesta in una mancanza di flussi (reddito, denaro). Ciò significa che se voglio combattere la povertà/miseria devo agire sui capitali delle persone e delle loro comunità, non sui redditi delle persone. Le povertà sono rapporti malati non solo portafogli individuali vuoti.

È stata questa confusione teorica e pratica che fece dire ai primi proponenti dell’attuale Rdc che con esso avrebbero “eliminato la povertà”: con un extra-reddito non si elimina la povertà, si rende solo possibile la sopravvivenza e si garantisce un minimo di dignità a chi deve mangiare senza recarsi ogni giorno, con i figli, nelle mense gratuite (dove e quando ci sono ogni giorno).
Quella dichiarazione fu un errore culturale ed economico. Ma oggi di errori se ne stanno commettendo di più gravi, e da più punti di vista.

Togliendo il Rdc a chi è “occupabile” e non lavora si pensa di compiere un atto di giustizia, e per questa ragione trova anche un certo consenso in alcune persone per bene. Dove sta l’errore? Nel pensare che chi non lavora essendo in condizioni oggettive di poter lavorare sia un pigro, e quindi non si meriti quel denaro pubblico – ecco tornare la parolina magica “merito”.

Dai dati però sappiamo che circa tre quarti degli occupabili ha la licenza media, e circa l’80% non ha lavorato negli ultimi tre anni. Quindi, tendenzialmente, sono disoccupati cronici. Tra questi ci sono molti che pur avendo un’età per poter lavorare non riescono a lavorare – per fragilità emotive e relazionali, per un “capitale umano” troppo impoverito – , e che per poterlo fare avrebbero bisogno non di un corso di formazione di qualche mese ma di anni di lavoro sui suoi “capitali”, e mentre fa questi corsi ed è accompagnato dovrebbe sopravvivere e vivere magari con dignità. Ma, si dice, ci sono anche quelli che preferiscono stare a casa e non lavorare.

Certo, ma si dimentica che preferire il divano al lavoro è esattamente una forma concreta che assume la povertà di capitali delle persone; e il giorno in cui si capisce che quella non è una buona vita, la povertà è di fatto già superata.

Quando una persona, soprattutto se adulta, non lavora da anni ha dei problemi seri “ in conto capitale”. È già una persona fragile, è qualcuno a cui la vita ha reso molto complicato il cammino. Ci vogliono “ istruzioni morali per l’uso”’ di queste persone, perché si rompono molto facilmente. E invece negli ultimi tempi sono sottoposti dalla politica a un tristissimo mercato politico, come merce di scambio, usati per prendere voti da una parte o dall’altra, senza che nessuno conosca i loro nomi.

E così ci dimentichiamo che far lavorare persone che non lavorano perché non stanno bene è un’operazione estremamente difficile. Il lavoro non è una merce omogenea, non è qualcosa di indistinto che va bene per tutti e ovunque.

Questo è vero per tutti, ma è verissimo e cruciale per persone che hanno già molte difficoltà con la vita e quindi con il lavoro e con il suo mondo estraneo ed ostile, dal quale spesso si sono sentiti rifiutati, dove hanno fallito, dove sono stati umiliati, dove hanno perso auto-stima e dignità.

Il lavoro è un incontro di bisogni, è un intreccio di competenze, è uno sguardo reciproco di dignità. Se mi sento talmente poco qualificato e competente per offrire qualcosa agli altri, per superare questa mancanza antropologica – che andrebbe superata – c’è bisogno di molto lavoro di chi sta attorno a me.

Non basta qualcuno che mi dia l’ultimatum: se non accetti questa offerta di lavoro ti tolgo i viveri. Questa non è dignità, questa non è cittadinanza, è solo un’ulteriore umiliazione di persone già spesso umiliate e ferite.

C’è poi un altro grave errore etico, pensare che il lavoro sia un mezzo per punire i fannulloni facendoli finalmente lavorare: qualcuno in passato lo ha anche pensato e teorizzato (negli Opifici e nei Riformatori), ma la democrazia ha superato la visione del lavoro come punizione, e lo ha legato alla dignità della persona e alla sua fioritura umana.

È vero, infine, e lo sappiamo tutti, che è la reciprocità la legge aurea della vita civile, che ricevere qualcosa dagli altri in cambio di qualcosa che io sto offrendo loro è la via maestra della nostra felicità. Ma non tutti si trovano nella condizione soggettiva di poter essere dentro questa reciprocità civile, e duemila anni di cristianesimo ci hanno insegnato che valiamo e dobbiamo essere rispettati anche quando, per qualsiasi motivi, non siamo nelle condizioni di offrire qualcosa in cambio di un reddito. E se, in nome di questa mancanza di reciprocità, mi togli anche il reddito, la mia partecipazione alla vita civile diventa talmente infima fino ad azzerarsi, e torno a essere un invisibile scarto umano.

In tutte le società i poveri sono umiliati dalla vita e dai più forti. E oggi la politica preferisce chiudere un occhio o tutti e due sull’evasione fiscale dei ricchi, ma diventa spietata con i più fragili, e poi per tranquillizzarsi la coscienza ci vuole convincere che i poveri sono colpevoli della loro povertà. È l’arcaica “cultura della colpa” che dopo Giobbe e duemila anni di cristianesimo sta tornando a dominare le nostre anime: «Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete il povero» (Isaia 1,16-17).

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