Saluto al Vescovo Francesco

Domenica 8 gennaio alle pre 16,30, in una Basilica Cattedrale gremita si è svolta la celebrazione di congedo del vescovo Francesco Lambiasi dalla Comunità diocesana.

Insieme a monsignor Lambiasi 120 sacerdoti e 40 diaconi circa. Un lungo applauso è partito alla fine dell’omelia. Al termine della celebrazione, il ringraziamento da parte dei vicario don Maurizio Fabbri seguito da un altro lungo applauso. Come omaggio (monsignor Lambiasi non ha chiesto regali) un quadro che raccoglie foto dei momenti significativi dei suoi 15 anni alla guida della Diocesi. Poi ha preso la parola ancora monsignor Lambiasi per un saluto finale, tra commozione e ironia. A chi gli chiedeva come è fare il vescovo a Rimini, rispondeva “Qui è facile perché è impossibile”. Oggi risponde “è semplice perché è facile”.

Qui i testi dell’omelia del Vescovo Francesco e l’ intervento di saluto al vescovo Francesco del Vicario Generale.

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 83-90

UN APOSTOLO MISSIONARIO

  

1 – IL PROBLEMA DELLE OPERE

 

Restaurare od instaurare una liturgia vivente è indubbiamente molto importante per l’apostolato missionario, poiché si tratta di offrire ai nuovi convertiti un culto espressivo, capace di sedurli e d’orientarli verso Dio. E bisogna ancora che essi  vengano a parteciparvi… Perchè nella massa popolare vi siano «nuovi convertiti», bisogna anzitutto essere andati a cercarli. Quali mezzi voi pensate siano utili per questo?

Ecco evidentemente il problema capitale, ed il problema più difficile. Ci troviamo qui nel centro del nostro studio e ci vorrà un certo numero di colloqui per venirne a capo.

Esaminiamo anzitutto ciò che è stato fatto in questo senso. Da circa un secolo, si è intrapreso uno sforzo considerevole nel senso apostolico, sforzo d! intelligenza, di iniziativa, di abnegazione, il quale forma l’ammirazione di tutti quelli che guardano le nostre parrocchie. Si suole riassumere tutto questo insieme sotto il vocabolo «opere». Dacché si è accorta dell’invadente scristianizzazione, la Chiesa di Francia ha creato un complesso di opere che si ritrova più o meno in tutte le parrocchie, e certune di quelle opere ha una notevole vitalità. Quando un parroco può dire con verità: «Abbiamo delle belle opere», significa che egli è a capo d’una parrocchia che «cammina bene», né lui né i suoi vicecurati hanno da stare in ozio. Quando si paragona quel che era in altri tempi la parrocchia con ciò che è ora, si sta in ammirazione del cammino percorso e ci si domanda come dei preti, in generale più numerosi una volta, potevano occupare bene il loro tempo e specialmente quali contatti potevano avere con gli «infedeli» : Oggi la parrocchia non si capisce più senza quella rete di opere.

Sono le colonne della parrocchia — diceva un curato che se ne intendeva.

È assolutamente il vostro parere?

Sì, per il momento. Se ad un tratto si sopprimessero le opere nella maggior parte delle parrocchie, queste sarebbero improvvisamente ridotte a nulla in fatto di apostolato. Non si tratta dunque di proporre in questo capitolo la loro soppressione e noi chiediamo di non essere fraintesi sulle nostre intenzioni. Diremo quindi con forza tutto il bene che ne pensiamo. Non sarà con l’insidiosa e perfida volontà di coprirle di fiori per poi meglio soffocarle, di abbracciarle per designarle meglio alla vendetta pubblica. No, diremo ciò che ogni uomo che guarda è costretto ad ammettere, e quello che con tutti, noi ammiriamo ed ammettiamo. Ma le opere sono diventate talmente necessarie, si sono così profondamente integrate nell’apostolato parrocchiale, tutti le hanno prese e le prendono tanto a cuore, che secondo noi si arrischia di non più avere fermezza sufficiente per giudicarle e per apprezzarne il rendimento. Utilizzando troppo lo strumento, non si ha più il tempo bastante per verificarlo e per verificare la sua applicazione. Nel corso della nostra esperienza di parroci e viceparroci, abbiamo notato certe impotenze e certe deficienze che ci stimiamo in obbligo di segnalare.

Innanzi tutto, non credete che s’imponga una distinzione? moltissime realtà vengono incluse sotto questo nome di «opere»: taluni vi fanno entrare tutto, da quelle che organizzano i divertimenti fino alla I.O.C.; bisognerebbe forse delimitare il terreno.

Sì, perchè altrimenti ci si farebbe dire ciò che non vogliamo dire… Noi non chiamiamo «opere» i movimenti specializzati d’azione cattolica — ad esempio la I.O.C. — per quanto in certe parrocchie si siano dimostrati incapaci di concepirli altrimenti e si sia finito per ridurli ad essere soltanto opere… («Ci tenete tanto ad una I.O.C.F.? — diceva quel buon curato. Benone! Io non sono pignolo ed istituisco la I.O.C.F.; ci sono già ventitré opere nella mia parrocchia: con questa saranno ventiquattro…»). Non chiamiamo neppure «opere» le organizzazioni sociali del lavoro, sindacati cristiani ed altri. Il loro scopo è in primo luogo professionale: non hanno a che vedere col lavoro parrocchiale.

Ciò che noi intendiamo per «opere» sono anzitutto le istituzioni create in margine alla chiesa per radunare, custodire, educare i fanciulli, i giovani e una parte degli adulti: patronati, colonie estive, ragazzi esploratori, circoli rionali, società ginnastiche o sportive, fanfare, associazioni maschili, corali, ecc… Vi sono poi le opere di carità, destinate a mostrare il carattere caritatevole della Chiesa e a permettere ai cattolici d’esercitare la loro devozione: associazione di San Vincenzo de’ Paoli, dispensari, minestre popolari, assistenza alle madri, ecc… Ed infine le opere di propaganda: stampa, cinematografo, teatro, e via dicendo; opere destinate ad influenzare, ad attirare più ampiamente (1).

C’è una tale differenza, per cui è difficile giudicare nell’insieme.

Noi saremo infatti costretti a distinguere: ma in massa bisogna lodarle altamente. Si sa ciò che le opere hanno rappresentato nella restaurazione che la Chiesa di Francia ha operato nel secolo XIX e più specialmente dopo la «Separazione», come esse hanno rinnovato l’attività cattolica, stretti i credenti intorno al clero, esteso talora la zona d’influenza di questo, manifestata la vitalità cristiana agli occhi degli indifferenti.

In una parrocchia che possiede una rete di opere bene organizzata, tutti i fedeli trovano nelle istituzioni parrocchiali una risposta a quasi tutti i loro bisogni: i bambini possono venire a giuocare, i giovani e le ragazze fanno sport, campeggi, musica, le famiglie vengono a distrarsi alle rappresentazioni cinematografiche o teatrali, gli uomini hanno il loro giuoco di bocce o di carte, la biblioteca parrocchiale fornisce libri ai piccoli o ai grandi, l’istruzione religiosa è raggiunta attraverso i vari circoli di studio, i poveri ricevono soccorsi, i malati sono curati. La «Città parrocchiale», col suo salone, con le sale più piccole, che servono alle riunioni dei gruppi, coi suoi campi da giuoco, con la cappella delle opere, ecc., dà un’impressione di potenza, che giustamente riempie di fierezza il pastore e le sue pecore. Le opere sono veramente le colonne della parrocchia; ci si domanda che cosa sarebbe senza di esse la tale o tal altra parrocchia popolare (2).

Non credete che opere così potenti corrano il pericolo di accaparrare tutta l’attività del clero e di esaurire tutte le risorse della parrocchia?

Bisogna senza dubbio riconoscere che esse costano moltissimo denaro, tempo e forza. Si può infatti dire che accaparrano tutte le disponibilità del clero e degli ausiliari. Per costruire i locali necessari, per conservarli, per migliorarli, per lanciare il cinematografo, per pagare i maestri e le maestre di scuola, per sostenere le colonie estive e le opere assistenziali, quanto denaro ci vuole!… Appena ci si è lanciati in questa impresa, si è divorati dalle preoccupazioni di ordine materiale: bisogna fare la questua, organizzare vendite di beneficenza, lotterie, inventare ingegnosi procedimenti per trovar denaro: e il tenore della predicazione ne risente molto. E siccome il successo chiama con sé il progresso, non ci si riposa mai sui risultati ottenuti, si vedono le cose sempre più sempre grandi, sempre più perfette, si è presi in un ingranaggio amministrativo (progetti, preventivi, fornitori, fatture, tasse, ecc…): ciò che era solo mezzo in ordine intentionis rischia, in ordine executionis, di diventare un fine. E d’altronde le opere sono tremende divoratrici dell’attività del clero: prendete un vicecurato e calcolate con lui il tempo che ha trascorso nella preparazione delle sedute ricreative, nell’elaborazione del programma cinemato-grafico, nell’organizzazione e nella direzione della sua colonia, nell’allestimento del bollettino, nel buon andamento del patronato, tenendo conto della scala dei valori di ogni cosa, e vedrete che egli vi ha speso tutto il suo tempo, che quasi ogni sera ha vegliato sino a tarda ora e che spesso vi si sfinisce fisicamente e psicologicamente. Ma in compenso il risultato ottenuto non è scarso: grazie a questo sforzo veramente sovrumano, in certe epoche di anticlericalismo, è stato gettato un ponte fra il clero e la vita. Si è vista la sottana dovunque, ed essa suscitava simpatia; nessuno poteva dire che il sacerdozio fosse una sinecura: molti pregiudizi sono caduti ed è per merito delle nostre opere, in grandissima parte, che l’anticlericalismo ha dato luogo ad un’indifferenza religiosa improntata a cordialità verso i preti: (è un bene? Ecco una questione che si potrebbe dibattere). Il loro insieme, ben coordinato dalle direttive d’opere, diocesane e nazionali, ha dato alla Chiesa di Francia un sicuro prestigio: il governo, anche nei momenti in cui era estraneo al pensiero cristiano, per non dire di più, ha dovuto convenire che il cattolicesimo esisteva come un corpo vivente nella nazione, e trattarlo come tale: grazie alle sue opere, è presso di noi come una forza di cui bisogna tener conto: la sua influenza supera il nu— mero, strettamente contato, dei praticanti. Dal 1900 al 1940 esse hanno rifatto una gioventù che si è sviluppata nell’orbita del cattolicesimo, senza il favore del governo e spesso contro la sua ostilità. Ma soprattutto esse hanno tratto fuori da questa gioventù un reale fior fiore, una speranza per sempre, formata a pensare cristianamente e a vivere di Cristo. Migliaia di giovani, di ragazze, di giovani famiglie devono a queste, se hanno potuto avvicinare personalmente il prete e se ne hanno ricevuto un impulso morale che ha orientato la loro vita; se hanno beneficiato d’un insegnamento religioso che le sole prediche della chiesa non avrebbero loro dato. È grazie alle opere, in gran parte, che le nostre cerimonie parrocchiali rivestono il loro splendore, che certi posti sono sempre occupati, che i nostri preti hanno della gente che li frequenta: è ancora grazie alle opere che, come si suol dire, si hanno in mano le «generazioni di domani». Senza contare, cosa non trascurabile, che esse forniscono ai cattolici pieni di generosità elementi che possono fungere da capi al servizio della Chiesa.

Magnifico risultato; ma voi parlavate d’impotenze che si rischiava di non vedere. Tutti sono d’accordo sui benefici delle opere. Credete utile continuare ad esaminare le loro benemerenze?

Pensiamo di no: perchè, nella strategia apostolica come in quella militare, è importante non lusingarsi.
— Non cercate di dirmi ciò che mi fa piacere — diceva Foch ad un ufficiale di collegamento. — Ditemi invece la verità.

La cosa più urgente non è di consolarci, ma di vedere a che punto siamo. A quale scopo incoraggiare noi stessi con l’enumerazione compiacente dei benefici o assaporando i risultati ottenuti?

Noi diremo dunque semplicemente ciò che pensiamo; diremo quello che abbiamo veduto, e risalendo dai fatti alle cause esporremo quello che ci sembra il motivo degli smacchi o dei successi troppo limitati. Nessuno dovrà vedere nelle nostre osservazioni una requisitoria contro questa o quell’opera, una posizione assunta in anticipo, un partito preso qualsiasi.

Voi prendete un mucchio di precauzioni oratorie. È dunque un argomento così scottante?

Non dovrebbe esserlo, e di solito fra preti lo si discute serenamente, come pure fra laici: alle volte, però, la discussione s’inasprisce. Noi vorremmo perciò cominciare col dire perchè succede che un dibattito sulle opere somigli talora alle vane discussioni politiche che ingombrano le colonne dei giornali o i discorsi delle pubbliche riunioni, piuttosto che ad una ricerca fraterna e inquieta dei più efficaci mezzi d’azione. Ci si sforza a legittimare ciò che si è fatto, la tattica che si è usata, più che a vedere i ripiegamenti che si sono potuti introdurre a poco a poco e a verificare (per cambiarli, se mai) i metodi.

Si tratta infatti d’un problema vitale e di conseguenza d’un complesso problema il quale, complesso come la vita, non trova una soluzione completa. I nostri poveri mezzi, le nostre infime ricette non portano mai rimedio che ad uno degli aspetti del male. Quando una discussione sulle opere consiste nel brandire un metodo, il «proprio» metodo, per scagliarlo in testa agli altri ed eliminarli, è subito sterile, se non nociva, almeno alla pace fraterna.

Quando ci si è messi anima e corpo in un’opera, quando con cuore d’apostolo si è atteso qualche risultato e taluni di questi risultati sono venuti a farci vivere dolci ore di consolazione, fa sempre male girare la medaglia per vederne il rovescio. Dopo aver fatto tanti sforzi e provato tanta gioia per i risultati, perchè arrischiare di perdersi d’animo con lo spettacolo degli smacchi? Quando, del resto, si è uomini d’azione, tutti tesi al lavoro, verso il progresso delle proprie opere, si ha il tempo di fermarsi per istrada e di guardare indietro, col pericolo di perdere lo slancio? Allora uno se la piglia con tutti quelli che vengono a dargli una doccia fredda o che lo fanno rallentare per chiedergli se ha preso la strada buona. Questo spiega l’atteggiamento di tanti direttori di opere zelanti dinanzi ad un’«opera nuova» al «metodo nuovo». Quanti parroci, in passato agli avamposti delle opere, tirano indietro le briglie che ormai tengono i loro vicari e piangono nel vedere abbandonati quei metodi che essi, da vicari, usavano una volta con successo! Certo, a noi parroci accade di preoccuparci legittimamente dei cambiamenti bruschi e molteplici di certi viceparroci, che hanno solo il gusto delle novità e che demoliscono prima di domandarsi quale valore avrà ciò che costruiranno in sostituzione. Ma non ci succede anche di tremare un po’ troppo davanti alle iniziative? Diceva un giorno un vicecurato:

«Nulla io temo quanto un parroco che in altri tempi si sia occupato del patronato e con esito buono: perchè egli vuole assolutamente che si faccia come lui: vent’anni or sono era un rivoluzionario, ma oggi non lo è più».

La stoccatina ha un fondo di verità, se si pensa infatti alle generazioni che, specialmente all’epoca nostra, si succedono a ritmo accelerato, con temperamenti diversi, con gusti diversi, con bisogni diversi, con condizioni di vita totalmente mutate. Ciò che ieri piaceva non piace più oggi; ciò che dieci anni fa faceva del bene, oggi forse non lo farebbe più. Così certamente si spiega che certi curati, i quali un tempo come vicecurati hanno duramente lottato per ottenere dal loro parroco il permesso d’intraprendere certe opere, fanno a loro volta soffrire al loro vicecurato ciò per cui hanno tanto sofferto.

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(1) In tutto questo capitolo non parleremo delle scuole parrocchiali, perchè esse rappresentano un settore a parte. Non ne abbiamo sul nostro territorio e non vorremmo esprimere su di esse il nostro pensiero, che non sarebbe fondato su un’esperienza fatta da noi, o presso di noi. Se qua e là ne facciamo menzione, se sembriamo sfiorare il soggetto, si sappia in ogni caso che non si tratta che delle nostre parrocchie scristianizzate, e che noi ci guarderemmo bene dal portare un giudizio sull’insieme del problema.

(2) Ci si stupirà forse che noi sembriamo porre su un piano d’uguaglianza ogni specie d’opere, e che nella nostra enumerazione il cinematografo si trovi accanto alla biblioteca. Non pretendiamo con questo di confonderle: quando le nominiamo insieme, è sempre sotto una luce che è loro comune. Qui si tratta del tempo e degli sforzi che richiedono: più oltre, quando si tratterà di valutare il loro rendimento apostolico o le possibili deficienze di alcune di esse, faremo le necessarie distinzioni. Quando pare che ci confondiamo, si è che guardiamo sotto un punto di vista in cui la distinzione non è necessaria.

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 078-082

Incontrate difficoltà nel fatto del miscuglio di «classi» e di culture che si opera necessariamente nella Chiesa?

Nessuna. In una parrocchia popolare come la nostra, è di somma importanza che tutta l’atmosfera della nostra preghiera comune sia «operaia». Questo può far stupire, poiché la chiesa è il convegno di tutta l’assemblea cristiana, il luogo dove non esiste distinzione di classe. E certamente, dopo cinque anni di sforzi, le nostre cerimonie di Colombes non sono ormai più segnate da questa distinzione: ma noi abbiamo cominciato col dare loro come un colorito operaio. Bisogna infatti che non solo gli operai si sentano a casa propria in chiesa, ma che perdano l’impressione, data da tante altre parrocchie, che la religione è fatta per i «borghesi». Inoltre, se vogliamo che la preghiera li prenda in tutta la loro vita, che essa sia l’espressione delle loro pene, dei loro sforzi, delle loro gioie, dei loro bisogni reali, bisogna pure che vi si tratti, e spesso, della loro officina, del loro laboratorio, del loro banco di lavoro, del loro focolare, delle loro difficoltà per tirare avanti nella vita.

In una parrocchia operaia bisogna parlare della loro classe operaia. Immaginiamo quanto possono essere efficaci per loro degli inni come il seguente:

“All’inizio del giorno, s’eleva la mia preghiera,
L’opera delle mie mani sia benedetta da te, o Signore
Perchè tutti gli operai siano «edificati»
Da questo lavoro compiuto sotto il tuo sguardo divino”.

Oppure ancora questa strofa del medesimo cantico:
“O mio Dio, fate che oggi, nella classe operaia
Ci sia più pace, più gioia, e la vita sia più bella
E che fedelmente io mi sforzi di fare
Con tanto amore la tua volontà”.

E così pure nelle coreografie e negli addobbi delle feste, bisogna che il popolo ritrovi le cose di casa sua, della sua vita: evidentemente questo non vuol dire che siano cose triviali o di cattivo gusto.

E gli altri parrocchiani (i commercianti, i liberi professionisti, che non mancano certo nella vostra parrocchia) che cosa ne dicono?

Naturalmente qualcuno ha protestato: c’è persino chi continua a protestare;… ma son persone, che non hanno capito. Ma, che volete? una reazione ha sempre un carattere di reazione: per riuscire, dev’essere un po’ forte. Quanto a noi, se esageriamo un pochino in questo senso, calcando più del necessario sulla vita operaia, siamo così sicuri che si ristabilirà l’equilibrio dopo di noi ed intorno a noi. Del resto, a poco a poco, tutto si sistema. Una volta rotto il ghiaccio — il ghiaccio del formalismo borghese — diventa assai meno necessario insistere sul carattere operaio della nostra preghiera in comune. Dal momento in cui i nostri operai si sanno «in casa loro», amati da noi, non hanno più bisogno che glielo facciamo sentire. Così tutto rientra gradatamente nell’ordine e la stessa liturgia popolare diventa la preghiera di tutti, il coro in cui si armonizzano tutte le voci.

Che cosa pensate dei chierichetti?

…Pensiamo che cento volte, nelle nostre visite a domicilio, abbiamo udito la stessa riflessione:

— Oh! sapete.„ Io ho fatto una cura di preghiere e di cerimonie per tutta la vita: sono stato chierichetto sino a 17 anni!…

Quale confratello non l’ha sentito dire come noi, e talora dalla bocca dei più accaniti contro la religione? Questo triste risultato ci fa riflettere. Se ogni domenica, e spesso in settimana, mobilitiamo i migliori bambini della parrocchia per arrivare a ciò, è certo meglio astenersene. Indubbiamente quelle parole sono spesso una scusa e la ragione invocata non è la vera causa dell’apostasia, ma bisogna tuttavia stare attenti a non aiutarla.

Uno dei primi motivi di questo smacco non sarebbe che, per il servizio dell’altare, noi cerchiamo troppo i «fanciulli savii», quelle graziose, piccole «nature morte» (o addormentate) che non farannomai uno scarto né in un senso né nell’altro, ma che troppo spesso mancano di personalità? Un confratello, al quale facevamo osservare ciò, ha avuto il cinismo di rispondere:  È vero: ma, caro mio, è fra quelli che troviamo le vocazioni.

Ah, questo poi no! Se il gruppo dei chierichetti deve essere una casta reclutata fra i «colli torti» o i «piccoli modelli», e questo allo scopo di darci vocazioni sacerdotali… grazie tante! Da noi, abbiamo ogni anno numerosi ingressi nel piccolo seminario (quindici in cinque anni, senza parlare delle vocazioni tardive): ma non sono tutti ex chierichetti, e specialmente non di quella categoria. Non si faccia del gruppo dei chierichetti, e soprattutto dei chierici, una casta chiusa. È così facile! tutto contribuisce a formarla: un reclutamento serrato, riti, riunioni numerose, una iniziazione complicata, e per di più l’impressione di una superiorità sui comuni fedeli.

Nulla di meglio per sottrarre i nostri fanciulli e i nostri giovani al loro ambiente e per togliere loro il senso della conquista. Ci rallegriamo nel vedere dei bambini che sanno a menadito i principii della liturgia, le regole della messa solenne e della Settimana Santa, o magari anche del Pontificale; ma che bisogno ne hanno? a che cosa servirà loro tutto questo nella vita operaia e per pregare nel loro futuro focolare? Noi li «ecclesiastichiamo» e niente altro: tanto più che, in fondo, non è difficile, perchè basta un po’ di memoria e di contegno. È assai più duro mescolarsi a dei compagni di laboratorio, per guadagnarli al Signore, e compromettersi davanti ad essi, e darsi anima e corpo alla conquista d’un ambiente di lavoro. È molto più arido, più esigente, più ricco d’insuccessi. Allora, se noi proponiamo ai nostri giovani un’altra attività, fatta tutta di gesti, di atteggiamenti, un’attività che richiede solo un lavoro di memoria ed un po’ di decoro, corriamo il gran rischio di vederne alcuni accontentarsene e perdere ogni senso apostolico.

Non esagerate?

Come lo vorremmo! Ma noi ricordiamo troppi esempi. Senza andare a cercare altrove, da noi, nella nostra parrocchia dove tutto sembra aperto alla conquista, dove la liturgia stessa è missionaria al cento per cento, ecco quel che accadde quattro anni or sono.

Avevamo lasciato ad un laico la cura di formare i nostri chierici, avvertendolo che chiedevamo loro assai meno di conoscere le rubriche che di essere edificanti per il contegno e per la regolarità. Il nostro giovanotto si dedicò tutto al suo compito, dimenticò un poco i nostri consigli e fece sostenere ai giovanetti ogni specie d’esame di cerimonie. Tutto andava bene, vero? Ebbene, in un giorno festivo, per una ragione d’interesse generale, non potemmo celebrare la messa solenne e dovemmo accontentarci di quella dialogata. Che cosa accadde? I nostri chierici scioperarono, affermando di non voler più servire in una parrocchia dove non ci sarebbe più stata la messa grande. Fu inutile spiegare loro che si trattava del bene generale, che eravamo in parrocchia missionaria, ecc… Nessuno poté convincerli: le anime da salvare, l’adattamento necessario per i parrocchiani, i sacrifici inerenti alla conquista, erano argomenti che non li riguardavano. Li interessava un’unica cosa. avevano imparato i riti della messa solenne e volevano applicarli. La loro soddisfazione personale, anzitutto; il resto non contava!

Come fare, allora? Bisogna sopprimere i chierichetti ed i chierici?

No: come faremmo per le nostre cerimonie? Ma in primo luogo bisogna guardare al bene della loro anima, prima di pensare al nostro proprio comodo, e non mobilitare, per esempio, dei poveri bambini sino a far loro servire due o tre messe di seguito, col pretesto che non abbiamo nessun altro per risponderci.

Ecco ora un altro modo di procedere che ci sembra assai migliore: l’abbiamo visto applicare con successo a Nostra Signora della Speranza. Non c’è nessun gruppo speciale di chierichetti e di chierici: tutti i bambini della parrocchia sono invitati a servire, e in realtà l’impulso è stato dato in maniera tale che, prima della messa, il prete incaricato di ciò ha solo da aprire la porta della sacrestia per avere l’imbarazzo della scelta. Ed infatti, fra tutti quelli che gli si affollano intorno tendendo le braccia, egli sceglie chi in quel giorno gli pare meglio disposto. Quindi, niente separazione, niente distacco di chierichetti, niente differenze, affinché a tutti resti l’impressione che il compimento dei riti non è tutta la religione.

Sappiamo anche ammettere che certi ragazzi dell’ambiente operaio non provino nessun gusto per questo genere di coreografie, e comprendiamo bene i no stri militanti operai, della I. O. C., od altri, quando non vogliono compromettersi agli occhi dei compagni indossando una sottana. Non serbiamo nessun risentimento a loro riguardo; sappiamo essere discreti. Alcuni non oserebbero rifiutare e soffrirebbero: altri accetterebbero senza vedere gli inconvenienti: in tutti i casi, la loro influenza potrebbe subirne le conseguenze.

Concludendo questo colloquio sulla Liturgia, vorremmo sottolineare che, se ha una grande importanza, non è tuttavia il principale nelle nostre riflessioni sulla parrocchia missionaria. Ora, spesso ci è parso, nelle conversazioni avute coi confratelli che ci avevano interrogati su quel che facevamo, che per essi tutti i problemi di pastorale si riducessero a questo capitolo. No, purtroppo: sarebbe certo più facile; ma se è necessario dare alle nostre comunità cristiane un’intensa vita di preghiera in comune, l’adattamento liturgico non è il solo rimedio ai mali di cui soffriamo. Lo spettacolo della miseria delle anime, l’ansia della conquista esigono altri sforzi più ardui, più importanti e più urgenti. In caso contrario, essi contribuiranno ad intensificare la preghiera comune e creare un’anima comune.

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 057-063

E al di fuori della Messa?

Al di fuori della Messa abbiamo i vespri, ancora mantenuti per principio in certe parrocchie popolari (ma nessuno ci viene più); — abbiamo delle processioni lamentevolmente esigue, organizzate senza apparente necessità: il signor curato mobilita tutti per dare (come diceva don Remillieux) «illusorie soddisfazioni al Cuore di Gesù». Ciascuno vi si annoia (sempre la noia, la mortale noia!). Poiché nessuno sa per quale ragione si gira così intorno alla chiesa processioni del mese di san Giuseppe, del mese di Maria, del mese del Sacro Cuore. In queste processioni il clero presiede alla riunione del medesimo gruppetto di pie persone e dà loro eternamente la benedizione del SS. Sacramento, senza che con questo diventino migliori: mentre gli altri, quei famosi altri di cui non ci si occupa, restano metodicamente fuori ed in eterno vi rimarranno, perchè questo non li riguarda, né presenta alcun interesse per la loro vita.

Non trovate strano e triste che, avendo la possibilità d’organizzare, al di fuori della Messa, cerimonie popolari, dove l’adattamento potrebbe andare al galoppo e che potrebbero essere missionarie — destinate cioè ad attirare un mondo diverso da quello parrocchiale — ci siamo ridotti a queste miserie? E che, quando apriamo o chiudiamo una riunione non liturgica, siamo incapaci di far dire ai fedeli presenti qualche altra cosa che non sia un Pater Noster o una Ave, Maria ripetuti come una formalità, senza che nessuno pensi alle parole che gli escono dalle labbra; neppure si recitano simultaneamente, tanto è assente il senso della comunità in preghiera? E non parliamo poi delle «preghiere del mattino» o delle «preghiere della sera» recitate in comune in parrocchia o nei collegi, con quel brio che tutti sappiamo, in formule che quasi nessuno segue…

Perchè tutte queste deficienze nella celebrazione del nostro culto cristiano?

Esse si spiegano così: noi ci abbandoniamo ad un ozioso conformismo. Abusiamo del consiglio di san Paolo: «Custodisci il deposito…». Noi conserviamo le tradizioni!; ripetiamo all’infinito ciò che si è fatto nella nostra parrocchia, o «ciò che si fa» senza compiere il necessario sforzo di adattamento a coloro che sono oggi i nostri parrocchiani. Ci culliamo nell’illusione che i fedeli lì presenti traggano profitto da ciò che diamo loro, quando in realtà essi si annoiano educatamente e pregano solo in maniera individualista, seppur pregano. Noi ci disperiamo talora vedendo in essi poca premura e moltiplichiamo gli appelli («Venite per dare l’esempio») o le scipitaggini («Vi ringrazio di aver voluto intervenire così numerosi»). E d’altronde sappiamo bene che né il loro numero né le loro qualità aumenteranno, finché non avremo cambiato il metodo.

Bisogna riconoscere che purtroppo le vostre critiche corrispondono alla realtà. E del resto la maggioranza dei preti è d’accordo con voi. Ma quali riforme proponete? Che cosa fate nella vostra parrocchia?

La risposta a questa domanda non può essere data che in parecchi tempi. Ciò che noi ci sforziamo di fare deriva anzitutto da due principii: la parrocchia è una comunità e la preghiera collettiva deve perciò essere comunitaria; le nostre parrocchie appartengono all’ambiente popolare e la loro preghiera collettiva deve dunque essere adattata all’anima popolare. Inoltre, dobbiamo anche distinguere molto nettamente due piani. C’è la liturgia propriamente detta, che è la preghiera dei fedeli: nella sua celebrazione dobbiamo certo pensare ai nuovi convertiti ed anche agli infedeli che vi assistono incidentalmente, ma direttamente essa è fatta per gli «iniziati», nel senso antico della parola. E ci sono le cerimonie extra-liturgiche, quelle della sera in generale, che noi compiamo certamente per la comunità cristiana, ma ancor più per gli infedeli che cerchiamo di attrarvi.

Ritorniamo anzitutto sui nostri due principii. Per diventare viva e conquistatrice, la nostra liturgia deve essere in primo luogo comunitaria. Non è che una parola, ma quanta luce irradia! E se alla sua luce si volesse ripensare tutta l’attività liturgica della parrocchia, la si potrebbe trasformare. Dobbiamo convincerci (noi per i primi) e convincere i nostri fedeli che la parrocchia è un’unità, un’espressione della Chiesa «una», che ha la sua preghiera da far salire, il suo culto da rendere a Dio, una preghiera ed un culto che non sono di carattere individuale, ma sociale; che in chiesa si prega tutti insieme per assicurare la gloria di Dio e a beneficio dell’intera Chiesa; che la messa principalmente è il Sacrificio di Cristo, offerto dal Corpo mistico, senza che la sua celebrazione lasci posto all’individualismo. Questo deve essere meditato, spiegato, ripetuto senza tregua, come una dominante del nostro insegnamento, un tema di fondo su cui sarà ricamato il resto. Bisogna eliminare spietatamente il disaccordo, che contraria il carattere comunitario della preghiera parrocchiale. E non solo quello che trascina i fedeli verso cappelle o verso altre parrocchie (come spesso si fa, per tenere con sé «il proprio mondo»), ma il disaccordo dell’atteggiamento, interno od esterno. E bisogna contemporaneamente organizzare tutto perchè la celebrazione effettiva sia, il più possibile, comunitaria. Per riuscire su questo punto, abbiamo maggior facilità nelle nostre parrocchie popolari che in quelle borghesi; perché il mondo popolare è molto meno individualista di quello borghese, come torneremo a dire più diffusamente, parlando del problema della cultura. Tutto ciò che è comunitario, risponde ad un profondo istinto della sua anima. Noi diciamo, in secondo luogo, che la nostra liturgia deve essere adattata. Non pretendiamo, con questo, introdurre mutamenti contrari alle prescrizioni canoniche, ad esempio nella messa solenne propriamente detta, o facendo cantare in volgare dal celebrante il «Libera» dell’assoluzione. No: questo genere di adattamenti è poco desiderabile, forse, ma spetta all’autorità ecclesiastica di esaminarlo e di deciderlo. Il nostro si muove in un campo libero. Ne daremo esempi fra poco: per ora, restiamo nelle linee generali. E diciamo:

Mentre la messa non cantata è celebrata all’altare da un prete che osserva strettamente le regole della liturgia, ci rimane da far partecipare i fedeli alla sua azione: a noi di farlo in modo che la loro partecipazione sia viva, reale, in corrispondenza con le esigenze della loro mentalità; a noi di farli agire e parlare in modo che l’azione del prete diventi la loro azione, intelligente e vissuta. Ora, che cosa vediamo fare in moltissime circostanze? O si lasciano gli astanti alla loro pietà individuale, o si «occupano» facendo loro cantare dei «Noi vogliam Dio», dei «Io son cristiano», dei «O salutaris », facendo recitare loro rosari o preghiere diverse, senza rapporto col Sacrificio. Nessuna autorità ecclesiastica è mai intervenuta per portare una condanna; qualche volta ha solo ricordato che bisognerebbe preoccuparsi un po’ di più di ravvicinare il popolo cristiano alla liturgia. Perchè si pensa che questa autorità ecclesiastica si metta a scagliare fulmini contro i preti che fanno dire e cantare parole in stretta relazione con la liturgia celebrata? parole in armonia con una vita reale che esse esprimerebbero? Tutti gli «adattamenti» in questo senso sono dunque non solo permessi, ma incoraggiabili. devono estendersi su tutto: sugli atti collettivi che si richiedono dai fedeli, sui cantici che si fanno loro cantare, sulle parole che si fanno loro dire, sulle traduzioni che si pongono fra le loro mani. Bisogna che tutto sia espressivo ed abbia per essi un senso: non un senso astratto, scolastico, individuale (il senso che vi mettiamo noi, ma che ad essi sfugge); né un senso praticone, facile indubbiamente a cogliersi, ma non colto del tutto, perchè è stato indebolito dall’abitudine; un senso attuale, vivo, caldo della vita in cui si muovono i nostri fedeli, e che la trasporti su un piano divino.

Come fate ad applicare questi principii?

Parliamo innanzi tutto della messa. I nostri sforzi si dirigono specialmente alla messa parrocchiale: noi ne riparleremo fra poco. Ma non è inutile spendere una parola sulle messe basse: in primo luogo per sottolineare che noi le celebriamo basse il meno possibile, conformandoci alle rubriche diciamo realmente a voce alta, intelligibile per gli astanti, ciò che così dev’essere recitato. I nostri fedeli hanno il diritto di «sentire» le preghiere all’inizio della Messa, il Dominus vobiscum, il Sursum Corda, ecc.: e noi abbiamo il dovere di proscrivere dalle nostre consuetudini quel borbottio inintelligibile che solo può capire chi serve la messa. Abbiamo anche il dovere di far «vedere» la messa ai fedeli, di fare cioè gesti comprensibili e significativi. Un giovane prete diceva un giorno ad un confratello che solo nel giorno in cui aveva imparato a dire la messa si era reso conto del fatto che in certi momenti del Sacrificio bisognava fare sul calice dei segni di croce: durante tutta la giovinezza aveva servito un numero infinito di messe e seguito attentamente i celebranti, ma non aveva mai capito che i rapidi gesti da lui intravisti fossero segni di croce. Quanti fedeli potrebbero dire altrettanto! … Nello stesso tempo, naturalmente, noi insegniamo ai nostri fedeli ad essere attori, a rispondere insieme, ad una sola voce, alle preghiere del prete, a dire insieme e col celebrante il Gloria, il Credo, il Sanctus, l’Agnus Dei. Li abbiamo formati ad alzarsi insieme al Gloria, al Credo, al Prefazio, al Pater: ad inginocchiarsi insieme alla fine del Sanctus e dopo l’Agnus Dei: tutto per ottenere una «comunità in preghiera». Prima di cominciare la messa, annunciamo sempre ciò che stiamo per celebrare: — Oggi, 3 maggio, messa della scoperta della Santa Croce, con memoria di sant’Alessandro e dei suoi compagni martiri, e con l’ultima preghiera del tempo di guerra.

Vorremmo ugualmente poter giungere a far leggere in francese, a tutte le messe, almeno l’Epistola e il Vangelo, ma è un progresso ancora da realizzare. Ci arriveremo con l’aiuto dei «lettori» laici formati a tale scopo.

E i fedeli seguono le vostre indicazioni?

L’abitudine delle risposte è già presa: tutti rispondono. Per quel che concerne i movimenti, quasi tutti li fanno: sono poche le persone pie che si ostinano a stare in ginocchio durante tutto il tempo della messa.

E la Messa parrocchiale? è una « Messa solenne» non è vero?

Qualche volta, ma non sempre neppure più abitualmente. Noi riteniamo che bisogna conservare la messa solenne, liturgicamente cantata dalla folla (diciamo «dalla folla», senza di che, se ci si accontenta di cantori o di scholae, siamo agli antipodi del nostro pensiero, perché si rendono i fedeli non già attori, ma uditori). Non dimentichiamo però che siamo in parrocchia di missione, non in una parrocchia cristiana, e che ciò che sarebbe l’ideale per quest’ultima non lo è per noi. Noi conserviamo quindi talora la messa solenne, per avvezzarvi gradatamente i nostri fedeli, ma di solito utilizziamo altre formule.

Anzitutto noi fissiamo questa messa parrocchiale alle otto del mattino, affinché possa essere una messa di comunione. Vi convochiamo tutti gli elementi vivi della parrocchia, giovani dai movimenti specializzati, ma anche uomini e donne in piena vita, per averli lì, in un medesimo culto, l’insieme della cellula cristiana. Sono presenti tutti i preti della parrocchia, che vivono la messa in mezzo ai fedeli. Essi accolgono la gente a misura che essa arriva e le fanno prendere posto. Notate bene che non vi sono posti riservati; anzi, i primi arrivati prendono sempre i primi posti, senza lasciarne di vuoti. Così l’assemblea, più compatta, pregherà meglio in un unico slancio. Arrivando, i fedeli trovano su ogni sedia l’identico messalino, che lasceranno lì nell’andar via: possono possederlo per conto, ma ogni altro libro da messa è proibito spietatamente. Ciò permette d’ottenere una perfetta unanimità nell’esecuzione, indicando a tutti la pagina da prendere. Gli astanti sono quindi all’atto pratico, partecipanti. La risposta collettiva alle preghiere del celebrante è diventata così normale, che non la si nota neppure. Così gli atteggiamenti collettivi: ciascuno li assume come per istinto: a nessuno viene l’idea di comportarsi o di pregare in modo diverso dalla comunità. Si segue la messa molto da vicino. Alle volte, oltre alle risposte latine, interviene un coro parlato in francese, una preghiera letta in comune: un cantico i cui sentimenti traducono, in modo ampio e rigoroso, le preghiere e i gesti del prete in quel momento della messa. Nessun canto di schola, beninteso: è l’intera assemblea che canta e prega, con i suoi preti in mezzo ad essa… Di quando in quando la messa è celebrata di fronte al popolo, su un altare vicinissimo ai fedeli; in certi giorni festivi, l’altare viene persino drizzato sopra un podio, nel centro dell’assemblea. Di solito, però, la celebrazione si fa al posto normale, dove ciascuno può seguirla con lo sguardo. Ogni domenica, il pane e il vino sono su una stele, in mezzo alla navata centrale, dove i celebranti vanno a prelevarli solennemente al momento dell’offertorio. È l’offerta che parte dal seno della comunità.

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 052-057

UNA LITURGIA VIVENTE E MISSIONARIA

Assistendo alle vostre funzioni ho avuto l’impressione che voi compiate uno sforzo considerevole per far partecipare i fedeli alla liturgia. Credete che la vita del culto della parrocchia abbia una grande importanza missionaria?

Un’importanza enorme. La vita cristiana, alla quale vogliamo far partecipare la massa popolare, non è soltanto un culto: ma essendo la vita di Cristo in mezzo a noi ed in noi, e poiché Cristo è in primo luogo ordinato alla lode del Padre, la vita cristiana è principalmente culto. Per realizzare la nostra ambizione di «rendere cristiani i nostri fratelli», non pretendiamo di condurli in chiesa sui due piedi, di spingerli subito alla messa (essi ci vengono solo ad intervalli, spinti da questa convinzione: «La mistica» cristiana ha un valore per la mia vita totale»): ma sarà pur necessario infine aggregarli alla comunità cristiana che prega ed offre il Sacrificio.

È dunque estremamente importante fornire a questi nuovi convertiti eventuali e desiderati — alcuni dei quali entrano già in chiesa in certe circostanze — un culto cristiano che abbia già di per sé stesso un potere di seduzione, di attrattiva, non di repulsione: che sia anche un insegnamento, non un sonnifero…

E se pensiamo ai fedeli stessi, specialmente ai giovani, la conclusione è la medesima: se vogliamo che non disertino la chiesa, bisogna che essi ci vivano, non che ci sbadiglino: e se vogliamo che vi attingano il dinamismo necessario per diventare militanti, bisogna che le cerimonie che vi si svolgono diano loro vero senso cristiano.

Questo non accade di solito.

Purtroppo! Non occorre fare una lunga inchiesta attraverso le parrocchie, siano esse prevalentemente popolari o a predominanza borghese, per rendersi conto che il culto cristiano, come generalmente viene celebrato, non è affatto seducente; manifesta la noia, il formalismo, l’incomprensione. Un indifferente di buona volontà che entri nella maggior parte delle nostre chiese per vedere che cos’è una cerimonia cattolica, ne uscirà quasi sempre sbadigliando, se non addirittura alzando le spalle.

Eppure, si sono fatti degli sforzi per rinnovare la liturgia!

Ammirevoli sforzi! Non ignoriamo: vorremmo anzi che tutti i nostri confratelli li conoscessero. Non pretendiamo ingenuamente di presentare idee affatto nuove, né di essere i primi ad aver tentato il lavoro che s’impone. Tutt’altro! Abbiamo coscienza di prendere posto in una corrente e di esservi trascinati da altri che lavoravano prima di noi e coi quali ci sentiamo in comunione di spirito. Sappiamo però che quella corrente è ancora troppo debole, che incontra ancora troppe incomprensioni, e soprattutto troppe apatie o timidezze; ed è appunto per renderla più vigorosa, che noi scriviamo questo capitolo.

In che cosa vi pare deficiente la realtà liturgica nella maggior parte delle nostre parrocchie?

Basta descriverla per rendersene conto. Entriamo in una chiesa al principio di una messa domenicale. Cosa vediamo?

Ecco anzitutto una messa bassa, mattutina. Alcuni uomini, presso la porta, stanno in piedi e guardano di solito verso l’altare, talora altrove, e cercano invano di darsi un contegno. Nella navata, un miscuglio di fedeli, in prevalenza donne: alcune recitano il rosario e lo fanno sapere a tutti borbottando e sbattendo le corone: le altre leggono in un libro. Certi fedeli sono seduti, altri inginocchiati; senza ragione apparente, nel medesimo istante, o non importa quando, chi era seduto s’inginocchia, chi era inginocchiato si siede. Solo ad un certo punto si realizza l’unanimità: tutti sono in piedi per il Vangelo. Sull’altare, un prete va e viene, snocciola preghiere che non si sentono a tre metri di distanza, si volta con un rapido gesto per un «Dominus vobiscum» o per un «Orate, fratres», cui risponde soltanto il chierichetto. Egli è evidentemente isolato, tagliato fuori da quella folla che non è un’assemblea, una comunità, ma un aggregato d’individui che pregano alla meglio, come possono. Ad un dato momento si potrebbe stabilire il contatto fra il clero e i fedeli: sale sul pulpito un prete. Annunci parrocchiali, spesso letti male: avvisi diversi, dove la richiesta di denaro occupa il posto d’onore: sermone (riparleremo ancora dei sermoni) nel quale luoghi comuni riuniti in fretta danno un’impressione di cose udite cento volte e senza legami con la vita reale. Poi comincia all’altare il sacrificio propriamente detto: nella navata si scatenano questuanti e le seggiolaie. Spesso lo scopo della questua è annunciato ad alta voce, in diversi punti del percorso. La gente cerca i soldi: la seggiolaia rende il resto: dopo di che i fedeli che tentano di seguire la messa cercano di ritrovare «a che punto si è». La campanella dell’elevazione produce un certo trambusto, poi un certo silenzio: gli uni s’inchinano profondamente, altri guardano l’ostia e il calice. Poi ricomincia il rumore dei soldi, il tintinnio dei rosari, il fruscio delle pagine voltate. Si giunge così alla Comunione: sin dall’Agnus Dei molti cominciano ad alzarsi dirigendosi verso la balaustra: gli altri seguono, per non essere in ritardo. I passaggi sono invasi da una doppia corrente contraria, di chi va e di chi torna. Si ritrova finalmente il proprio posto, non senza essersi talora seccati per via dei vicini molesti: ci si immerge in un profondo raccoglimento. «Ite, missa est!» gli uni se ne vanno, gli altri se ne sono già andati, i migliori attendono la fine dell’ultimo Vangelo. Finalmente! è finita! Si è assistito al più grande atto della comunità cristiana in preghiera: l’offerta di Cristo alla Trinità per mezzo del suo Corpo mistico: la Chiesa.

Alla messa solenne l’atmosfera è diversa. Il prete all’altare si fa sentire di più, perché canta: ma la chiesa è per tre quarti vuota. Ci sono quelli che non possono fare a meno di trovarvisi, necessariamente «richiesti»: i bambini delle scuole, debitamente sorvegliati e tuttavia irrequieti e litigiosi (certo! si annoiano: guardateli e mettetevi nei loro panni. Tutto sommato, che cosa si pretende da essi? che stiano tranquilli; essi lo sanno, ma apprezzano assai poco questo scopo mediocre); le suore che si sono comunicate al mattino presto e che ritornano per fare numero e per dare il buon esempio; il gruppo delle cantanti preposte a garantire l’esecuzione dei canti «di massa»; qualche cantore (o un cantore) negli stalli, ed infine un po’ di brava gente dispersa a casaccio nella navata: ecco la quintessenza del pubblico parrocchiale. Quel pubblico, in maggioranza, non canta: ascolta. Per Io più, quasi sempre nelle parrocchie popolari, non capisce; non solo non capisce il latino, ma per lui tutto ciò «sa di nulla», anche se ha il messalino con la traduzione; perchè «sapesse di qualche cosa», bisognerebbe che esso partecipasse al canto e secondo la sua attitudine. Ciò supporrebbe molte condizioni realizzate, fra l’altro un’iniziazione fatta con perseveranza, nessuno gliela dà. Risultato: esso si annoia; con tutta la buona volontà, ma si annoia. Altro risultato: nessuno viene ad aggiungersi ad esso. Lo fuggono, al contrario; rifuggono quella messa grande dell’«ambiente parrocchiale»; ed il pubblico si rarefà sempre di più. Come è possibile vedere il culto ufficiale e solenne che la Chiesa tributa al suo Dio in quell’espressione che è totalmente impersonale? Nessuna comunità in preghiera neppure lì, in quella solenne messa parrocchiale, dalla quale la vita comunitaria è assente come dalle messe mattutine; più assente, anzi, perchè non ci si comunica, o ci si comunica assai poco.

La potrà vedere allora alla messa delle undici? Non c’è più il canto liturgico, sostituito dai pezzi d’organo e dai canti di tribuna (a solo, oppure della Schola). È assente il pubblico popolare, che non si sente a suo agio: in compenso, il pubblico borghese è numeroso e fa «folla». Si pensa che si possa attirare alla messa con quello spaccio di musica religiosa», così poco religiosa alle volte. In realtà, non lo si attira alla messa, ma all’audizione. Senza quella musica, gli uni verrebbero ugualmente, poiché bisogna pure andare a messa, e le undici sono un’ora che fa loro comodo: ma gli altri non verrebbero, o andrebbero a sentire la musica da un’altra parte.

Ma almeno così li possiamo avere ed già qualcosa…

Bel vantaggio, se ciò non serve a farli pregare! Credete che il compimento materiale dell’obbligo della messa, in queste condizioni, sia ciò che Iddio attende? e che corrisponda al comandamento della Chiesa? Canonicamente, senza dubbio; ma possiamo essere soddisfatti d’una religione giuridica? Quelle audizioni musicali sviano il polo d’attrazione, di Dio, del Suo culto, al quale nessuno pensa, verso un’impeccabile esecuzione o verso una voce attraente (fortunati quando non è una voce da opera comica! fortunati quando non si cercano per tirar gente gli artisti di teatro che si fanno udire lì e che si potranno poi udire nella «Carmen» e nella «Traviata»!… Pensate al programma delle «messe di mezzanotte», allo scandalo delle sedie fissate a caro prezzo, all’esclusione dei poveri, in quella notte della santa povertà!)…

Questi programmi musicali, i quali spesso non hanno che un lontano rapporto con il testo della Messa che un prete celebra giù di sotto, su un altare lontano (e noi alludiamo anche a quelli che un’onesta schola parrocchiale eseguisce del suo meglio), quelle melodie o polifonie religiose, hanno l’immenso torto di dispensare il popolo cristiano dalla sua parte di attore, di farne un uditore che sogna e si lascia affascinare (se tale è il suo gusto) più di quanto non preghi.

Non si tratta più del servizio divino, ma di soddisfazione personale, artistica, d’un prete, d’un direttore di schola, di alcuni esteti, a detrimento d’una vita collettiva di preghiera e d’offerta.

Parrocchia Comunità Missionaria pagine 046-051

I fedeli di Cristo sono sempre stati la minoranza. Questi calcoli numerici non sono forse un poco ingannatori?

Lo sono specialmente quando si fa il censimento dei fedeli nei giorni in cui la chiesa è piena. Ma approviamo per un momento questa soddisfazione; purché in seguito acconsentiamo a domandarci:

– Qual è il valore cristiano di questo pubblico di cui abbiamo fatto il censimento? Tutta questa gente si ama? Forma un blocco comunitario? Si conosce, almeno? Ha il sentimento di appartenere ad uno stesso corpo vivente? Pensano costoro d’essere gli uni membra degli altri? Sono animati da una «mistica»? La cerimonia da cui escono ha fuso le loro intelligenze e i loro cuori in un nobile pensiero e in qualche desiderio ardente? Vanno via con l’ambizione di far penetrare Cristo in tutta la loro vita e di conquistargli tutto il loro ambiente? Sono venuti semplicemente per compiere un dovere e per assicurarsi egoisticamente la salvezza eterna, o per nutrirsi di una vita che dovranno diffondere? Quale spettacolo daranno alla massa degli indifferenti, in mezzo alla quale ritornano? Quello di una famiglia i cui membri si riconoscono dalla carità, dalla lealtà, dalla fede in Cristo, dalla gioia fidente, dal coraggio nella prova? … o quello d’individui simili agli altri, eccettuate le pratiche più o meno settimanali? Questo gregge fedele, quando lo si guarda, spinge ad essere cristiani? O non agisce piuttosto in senso inverso: «Tutto qui! … grazie tante! per me è troppo poco… »? Del resto, considerate l’ipotesi di una conversione – non dico la conversione intellettuale di quel signore molto per bene che nell’età matura si sarà rivolto verso la verità cristiana: sarà ancora accettato – ma la conversione di quel militante comunista sinora ardente nel suo anticlericalismo, o la conversione di quella ragazza da marciapiede che dava scandalo. Come saranno accolti? Si accetta Maria Maddalena, perchè è nel Vangelo… vorrei vederla arrivare in una delle nostre riunioni femminili!… Si trovano stupefacenti le reticenze dei Giudei di Gerusalemme, quando Saulo (Paolo) il persecutore si presenta ad essi trasformato in proselito… vorrei vederlo capitare nel circolo degli uomini!… E quale scandalo. se si moltiplicasse in dozzine, se invadesse l’ambiente (l’ambiente parrocchiale), sconvolgendolo col suo strano contegno! «Non siamo più tra noi… la parrocchia non è più ciò che era…». L’atteggiamento di noi cattolici verso il convertito non è forse, per istinto, quello del fratello maggiore verso il figliuol prodigo, quando questi ritorna all’ovile?

Mi sembra dimentichiate quelli della I.O.C. (Gioventù cattolica)

Non li dimentichiamo. Domandiamo solo:

– Come sono stati accolti, come sono tuttora accolti quelli della I.O.C. in certe parrocchie? Sono stati appoggiati? Sono stati riconosciuti come tipi di quel che dovrebbe essere il cattolico, in piena vita, nel suo ambiente naturale, preoccupato della sua conversione a Cristo? O come eccezioni, tollerabili a causa della loro buona volontà e generosità, ma difficilmente assimilabili alla parrocchia, quale essa era concepita?

Ma perchè i nostri cattolici nel complesso mancano di vitalità cristiana; di vitalità senz’altro? Perchè siamo infatti costretti a rispondere per lo più negativamente alla maggior parte delle vostre domande rivolteci un momento fa? Di chi la colpa?

Colpa nostra, purtroppo! Noi non dimentichiamo certamente la formidabile pressione che esercita sulle coscienze un materialismo, un sensualismo che ha penetrate tutte le nostre istituzioni, tutti i nostri programmi di vita. Ma siamo noi pure responsabili della debolezza dei nostri fedeli a reagire contro di esso.

Non abbiamo ridotto i nostri parrocchiani ad essere solo ascoltatori di sermoni e di conversazioni, anche in quei circoli dove si ritengono in dovere di parlare essi stessi? Non devono forse accontentarsi di registrare, senza possibilità di reazione da parte loro, i nostri argomenti, i nostri pareri, i nostri ordini, i nostri consigli? Più che dei trascinatori, non siamo noi per essi dei superiori? Ci lamentiamo della loro passività: ma dove avrebbero potuto prendere l’abitudine dell’attività?

Attivi talora, ed efficacemente attivi nella loro professione o nel loro ambiente, sul piano puramente naturale, li abbiamo avvezzati ad essere, nella chiesa ed intorno alla chiesa, persone che ricevono soltanto per custodire, per conservare, talvolta per difendere, ma non per dare: esseri passivi.

La parrocchia è diventata l’affare privato del clero, non dei fedeli. Essi vengono scartati persino nella amministrazione temporale: invitati a dare denaro per le opere, mai a controllare l’uso che viene fatto di questo denaro. Ancor più stanno in disparte dal lavoro apostolico.

È vero che, da Pio XI in poi, si ripete loro che hanno un dovere d’azione cattolica, che devono essere apostoli; ma quali mezzi si forniscono loro? Quali iniziative vengono loro lasciate? Quale parte di lavoro è loro affidata deliberatamente, istituzionalmente? I movimenti della Gioventù Cattolica hanno talora preso questa parte; ma con quanta timidezza gliel’abbiamo lasciata prendere! Con quali reticenze e contraddizioni! Noi facciamo la parte dei freni; mentre essi avrebbero bisogno di motori… E cosa ne facciamo di quelli che non appartengono a questi movimenti? 

Voi richiamate le recenti riflessioni di “Jeunesse de l’Eglise”.

Sì. Avete anche letto l’inchiesta: «Il cristianesimo ha devirilizzato l’uomo? Rispondevano ad essa molto bene Stanislao Fumet, Padre Sertillanges, Dunoyer de Ségonzac, Giovanni Lacroix, Enrico Charlier, don Colomb (N. 2, pagg. 65 e sgg.).

Evidentemente questa domanda richiede una risposta decisamente negativa se si tratta del cristianesimo di Cristo; ma, ahimè! quante riserve di affermazioni parziali, se si tratta del cristianesimo quale noi lo presentiamo troppo spesso! Non si può negare che vi sia una parte di verità in queste poche frasi spigolate a caso dalla lettura:

— Si paragona la santa Chiesa ad una madre troppo piena di precauzioni, la quale, per impedire ai suoi bambini di scivolare su una cattiva strada, li tenesse in casa in uno stato d’infanzia o di pseudoinnocenza che non permetterebbe loro di diventare uomini… (pag. 68).

 Ci sono troppe confidenze private, perchè noi possiamo mettere in dubbio che una certa educazione religiosa abbia prodotto (meno tra il popolo, è vero, che nelle classi dirigenti) un tipo d’uomo deficiente, dapprima scrupoloso, poi timorato, pauroso della propria ombra; un individuo troppo strettamente allevato fra le sottane della Chiesa visibile (pag. 71).

— In linea generale, tutto ciò che circonda la nostra vita cattolica ha bisogno di liberarsi da un’atmosfera tiepida e snervante, che ha finito per falsare il senso delle più rigorose verità e per mascherarne la sana e profonda realtà. Grazie a Dio. il cattolicesimo non si esprime sempre colla fabbrica d’immagini di S. Sulpizio, della quale il meno che si possa dire è che essa non dimostra né forza né carattere, ma vorrebbe volentieri una mediocrità inoffensiva nelle sue manifestazioni. Per poco non si finirebbe per fare della piccola suor Teresa una brava ragazza dolcissima e timidissima: si fa un soverchio uso delle frasi; «buon ragazzino», «buon giovanotto», «pia fanciulla»: i direttori di coscienza mancano di severità e non sanno (fatto caratteristico!) sbarazzarsi delle troppo numerose vecchie signore e signorine che ingombrano le sagrestie e fanno perdere a troppi preti un tempo prezioso (pag. 81).

A che pro continuare con queste citazioni e con questi argomenti? Siamo tutti d’accordo, per poco che riflettiamo e siamo leali.

Anche se citiamo magnifiche eccezioni – noi le conosciamo ed esse ci danno speranza – non si modificano queste constatazioni, che valgono per l’immensa maggioranza dei casi: l’ambiente parrocchiale non è una comunità, non ha il dinamismo delle primitive cristianità, non ha nessuna forza capace di intaccare il mondo pagano nel cui seno vegeta.

Si sono fatti uscire degli individui dal loro ambiente naturale per collocarli in quell’ambiente fittizio, senza colore e senza vigore, che è da noi chiamato «l’ambiente parrocchiale»; si è data loro una tinta «ecclesiastica» , cioè vagamente borghese, dove i borghesi stessi non si sentono affatto a loro agio se hanno una certa cultura, perchè si vedono superiori da questo lato; dove gli operai non si trovano per niente nel loro ambiente naturale, al quale tuttavia diventano a poco a poco estranei, sino a diventarvi inefficaci; dove si trovano veramente a posto soltanto le «persone incaricate delle opere» devote e servizievoli quanto mai, anche quando la loro lingua serve male la loro buona volontà, ma veramente inadatte alla conquista apostolica, e soprattutto alla conquista del proletariato pagano. che è qui l’oggetto della nostra principale preoccupazione.

Allora? come potrebbe la parrocchia ridiventare una comunità, una cristianità del tipo primitivo capace dell’opera missionaria che le si impone?

Ecco il problema: è immenso. Noi non pretendiamo di risolverlo. Comprendiamo la sua urgenza e sappiamo che, con noi, se lo pongono migliaia di preti e di laici. Nei colloqui seguenti, verremo esponendo modestamente le riflessioni che esso ci ispira, Ma ripetiamo qui, e ripeteremo ancora alla fine, che nulla verrà concluso provando, come una ricetta, l’una o l’altra delle riforme che noi invochiamo.

Un bel numero di altre considerazioni potrebbe esser fatto e noi saremmo felici di averle provocate.

Possano esse, unite alle nostre, sfociare in una realizzazione pratica, con la quale, applicandole tutte assieme, la parrocchia tornerà ad essere una comunità conquistatrice, uscendo finalmente dall’«ambiente parrocchiale»!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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